“Tano Sigaretta” se n’è andato per sempre. In piazza Jolanda, a Catania, dove da alcuni anni dimorava su una panchina che era diventata la sua casa, le sue fragorose risate non si sentiranno mai più. Ne danno il triste annuncio i frequentatori di quella piazza che ormai si erano affezionati a lui. Non si sa di cosa è morto, c’è chi parla di Covid, chi di polmonite, chi di infarto, chi di un problema al fegato: non ci sono notizie precise, Tano se n’è andato lasciando dietro di sé un silenzio assordante.
La verità è che soffriva di tante malattie, perché beveva. Spesso era alticcio ma restava lucido. Amava cantare. In passato aveva rifiutato di essere ricoverato, e si era sottratto perfino all’aiuto delle suore. La verità è che Tano una sua dignità ce l’aveva: a chi – intenerito dalla sua condizione – voleva prestargli soccorso diceva che voleva essere lasciato in pace. A portarselo il vento glaciale dei giorni scorsi, al quale per tanto tempo, Tano, aveva ha offerto i suoi piedi nudi.
Alla base di tutto – dicono i frequentatori della piazza – pare che ci fosse una rottura con la famiglia: il vizio di bere, probabilmente, aveva acuito i suoi problemi causati da qualche piccolo precedente penale al quale in passato si era aggrappato per campare e far campare la famiglia, come succede a tante altre persone che vivono ai margini di questa città, che in questo caso è la metafora di una società anaffettiva e indifferente.
Dopo quella lacerazione è sprofondato per sempre nell’abbandono. I figli spesso gli portavano da mangiare ma lui restava lì, perché lì Tano trovava la sua quiete. Per ore stava seduto a osservare il vuoto: beveva, cantava, rideva e si tratteneva con simpaticamente con i passanti che ormai lo conoscevano da anni. Quando era stanco si addormentava.
Da alcuni giorni stava male. Lui stesso, stavolta, non ha potuto fare a meno di chiamare il 118. Quando è arrivata l’ambulanza era troppo tardi: Tano aveva esalato l’ultimo respiro, mentre il vento continuava impetuosamente a soffiare. Cantava spesso un brano: “Mi dispiace, devo andare”. Anche a noi, caro Tano.
Luciano Mirone
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