Quella mattina di cinquant’anni fa era il giorno del mio decimo compleanno. Ero felice. Avevo ricevuto le scarpe da football. Me le avevano comprate i miei genitori alcuni mesi prima a Catania. Ma prima del fatidico 10 maggio non le avevo potute indossare. Mia mamma le aveva conservate con cura. Le aveva avvolte, la sera prima, nella carta da regalo e le aveva pure infiocchettate: finalmente ricevevo il regalo tanto desiderato. Il sogno di un bambino di quella generazione era questo: le scarpe bullonate, il pallone di cuoio (marrone) e la maglietta della squadra del cuore. Nient’altro.
Vivevo a Mistretta, un piccolo paese di montagna, dove la squadra non esisteva. Era un dramma per chi, come me, considerava il calcio la cosa più bella che c’era. Gli unici mezzi per collegarmi a quel mondo erano la radio con Tutto il calcio minuto per minuto, la televisione con il secondo tempo di una partita di serie A (trasmessa alle sette di sera), la Domenica sportiva in onda alle 22, e i giornali, con quegli articoli e quelle foto che riprendevano le prodezze del Milan, della Juve, dell’Inter, del Cagliari, del Catania, e delle squadre siciliane che cominciai a conoscere fin da allora, Messina, Siracusa, Akragas, Nissa, Acireale, Trapani, Canicattì, Leonzio, Megara, Ragusa, con quegli stadi in mezzo ai palazzoni delle città che cominciavano a straripare a macchia d’olio, o i campi in mezzo alla campagna siciliana oppure in mezzo alle montagne piene di mucche al pascolo.
Di ogni “pezzo” adoravo le “note”, quel trafiletto in grassetto dal quale si apprendeva se il campo era allentato, gibboso o in buone condizioni, se c’era un sole accecante o se soffiava una leggera brezza marina, se in tribuna si erano sparati i fumogeni, se l’arbitro era in forma o sovrappeso, insomma tutti quei particolari che rendevano il calcio molto colorato e affascinante.
Mandavo a memoria le formazioni, imparavo il mestiere attraverso i più bravi giornalisti del tempo, da Nicolò Carosio a Nando Martellini, da Enrico Ameri a Sandro Ciotti, da Candido Cannavò a Luigi Prestinenza, da Carmelo Gennaro a Luigi Siragusa.
Quel lunedì mattina del 10 maggio 1971, dunque, una nuova sensazione di felicità mi fece vibrare quando aprii il giornale. Assieme alle prodezze di Rivera, di Riva, di Mazzola e di Anastasi, un titolone mi fece battere il cuore: la squadra del mio paese, la Belpassese, aveva vinto il campionato di Prima categoria e per la prima volta era arrivata in Promozione. Gli intenditori sanno benissimo di cosa si parla: la Promozione di allora era una cosa speciale per un piccolo paese, una serie C di oggi, un fatto straordinario, specie se si pensa che ogni comunità era un mondo a parte, non c’erano le autostrade, le distanze erano immense, il campanilismo fortissimo.
Ma ci fu un motivo più profondo per il quale cominciai a sussultare. Le foto in bianco e nero. Le coppole nere che festeggiavano sugli spalti. E le magliette biancoverdi che si rincorrevano in campo, gioivano e venivano alzate in trionfo, i simboli di due generazioni a confronto: il vecchio mondo contadino e il nuovo che si emancipava attraverso lo sport. Il calcio aveva accorciato le distanze fra la zappa e il Sessantotto.
In mezzo a quella folla assiepata in tribuna intravidi i volti di Vrasi Cafaranu e di Miciu ‘u carritteri, due simboli della fantastica civiltà contadina che sarebbe scomparsa di lì a poco a colpi di ruspa, di colate di cemento e di una politica povera, scriteriata e senza idee.
In tribuna c’erano i contadini, in campo i loro figli: uno si chiamava Francesco Nicoloso, era il capo cannoniere della squadra, tutti lo chiamavano “il muchaco”, proveniva da Buenos Aires, dove durante l’infanzia trascorsa con la famiglia emigrata, mentre militava con i pulcini del River Plate, aveva conosciuto nientemeno che il grande Omar Sivori; l’altro l’allenatore Mario Morabito, una delle giovani promesse delle panchine siciliane che con la Belpassese aveva importato il modulo con il centravanti “all’ungherese” e i terzini fluidificanti, anticipando di qualche anno il “calcio totale” della meravigliosa Olanda di Cruyff. Ma poi c’erano Barbagallo, Motta, Musumarra, Cantone, Signorello, Prezzavento, che nell’immaginario del paese equivalevano ai vice campioni del mondo di Messico ’70.
Così Salvo Carbonaro, corrispondente del quotidiano La Sicilia, descrisse il clima di euforia che il 9 maggio 1971 si viveva a Belpasso: “In paese, subito dopo la partita, c’era aria di festa. Balconi imbandierati, pioggia di garofani e rose sulle macchine che trasportavano i giocatori”. Una cosa mai vista.
Fu allora che capii quanto sia fondamentale lo sport per far crescere una città. Quanto siano importanti la lealtà, l’amicizia, la solidarietà, il sacrificio, la felicità dopo una partita vinta, la sportività dopo una partita persa, la voglia di rialzarsi dopo essere stramazzati al suolo.
Dopo gli anni belli del sindaco Martinez, che aveva ridato volto a un paese devastato dalla guerra, la Belpassese fu l’emblema di una modernità che metteva al centro della sua attività i giovani. Fu questo il motivo vero per il quale, quella mattina del dieci maggio millenovecentosettantuno, i brividi cominciarono a correre nella schiena, e anche le lacrime.
L’emancipazione non è uno slogan e neppure un contenitore. È l’insieme di idee, di progetti, di sogni, di entusiasmo che un gruppo di persone è capace di portare avanti per il bene della propria comunità. Una frase che detta così probabilmente non significa molto, ma bisognava esserci allora a Belpasso, bisognava viverli quegli anni, per comprendere il significato profondo di frasi come “poveri ma belli”, “la fantasia al potere”, “il Sessantotto come metafora”.
Chiedete al figlio del bracciante, del falegname, del calzolaio, del fabbro ferraio, del muratore, dell’orfano di guerra cosa è stata la Polisportiva Belpassese. Un luogo dove era possibile fare sport senza spendere neanche un soldo e soprattutto dove era possibile sognare. Non per forza di diventare campione (sì certo, c’era anche quello), ma soprattutto il sogno di affrancarsi dall’arretratezza, dall’ignoranza, e dalla devianza minorile, perché lo sport – quello vero – ti porta a comprendere cos’è l’istruzione, la cultura, il lavoro.
Basta parlare con uno degli artefici di quel “miracolo”, il presidente Pippo Motta (che allora teorizzava “l’apostolato laico”, una via di mezzo fra Don Milani e i boy scout), il migliore dirigente della storia del calcio di questa città. I successi della squadra – ricorda – servirono per avvicinarci al mondo della scuola, dell’università e del lavoro, per dare la possibilità ai giocatori di trovare piena realizzazione nella vita. Così fu.
Un modello. Come il Grande Torino. Come l’Ajax. Come l’Atalanta. Un modello preso come punto di riferimento da un sacco di ragazzi dell’intera provincia, per i quali le giovanili e la prima squadra della Belpassese rappresentavano una “palestra” nella quale formarsi sportivamente e umanamente. Ma anche un formidabile volano che ha dato, in quegli anni, una ventata di progresso a una comunità che fra gli anni Sessanta e Settanta (ricordiamo, a parte Martinez, un sindaco e intellettuale come Giuseppe Sambataro) portarono Belpasso agli onori della cronaca per la zona industriale, lo sviluppo delle due banche, il teatro, i cinema e le arene.
Ricordo quei ragazzi, dopo un allenamento o una partita, raggruppati allegramente al Club 84 o nella sede della società (un ritrovo in un appartamento che sembrava quello di una società di serie A), tutti profumati, con i capelli umidi della doccia appena fatta. Un mondo pieno di sorrisi e di amicizia.
Ricordo l’entusiasmo scaturito dai derby con il Belpasso (l’altra società del paese che puntava sui veterani e trascurava i giovani talenti), le litigate infinite fino alle due di notte, gli sfottò.
Il “sabato del villaggio” di un paese felice, dove tutto sarebbe cambiato nel giro di pochi anni, quando la “nuova” politica avrebbe allungato le grinfie su tutto, perfino su uno stadio considerato “la Scala del calcio dilettantistico siciliano”: una ruspa e nel giro di un paio di giorni scomparve l’anello di gradoni in pietra lavica che attorniava il campo di calcio: in un sol colpo scomparve anche la Belpassese e quel fantastico settore giovanile. Per costruire la tribuna coperta ci vollero “solo” quindici anni: nel frattempo altri modelli si sarebbero imposti, a cominciare dal Malpassoto con i suoi modi volgari e violenti.
Quei ragazzi, un tempo reduci da una partita o da un allenamento, sono tornati tante volte al Club 84, ma non hanno mai avuto gli stessi occhi e gli stessi sorrisi di un tempo.
Ma oggi ricorre un anniversario importante e bisogna brindare. Auguri ai protagonisti di quegli anni indimenticabili. E grazie. Di cuore.
Luciano Mirone
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