Mai come ora l’inchiesta per far luce sul sequestro di Denise Pipitone ha messo in evidenza le contraddizioni che per diciassette anni hanno contrassegnato testimonianze e ricostruzioni investigative.
Fin da quell’1 settembre 2004 – giorno del rapimento della bambina, che allora aveva quattro anni – le indagini hanno presentato tante di quelle anomalie da portare tutti, opinione pubblica, giornali e televisioni, a parlare apertamente di depistaggio, senza il timore di rischiare querele o smentite.
Solo oggi – dopo un processo nei confronti di Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise, accusata ma poi assolta dall’accusa di aver rapito la bambina per una vendetta nei confronti del padre e della genitrice della piccola, Piera Maggio – si cominciano a delineare delle situazioni su cui, per diciassette anni, pochi hanno ritenuto di venire a capo. Due domande su tutte.
1) Perché è stato messo in atto un depistaggio così clamoroso, tanto da indurre due parlamentari del Pd a chiedere una commissione d’inchiesta che faccia luce sulle indagini? Perché un livello di omertà e di paura così elevato (significative certe scene di isteria, di versioni contraddittorie e di silenzi imbarazzanti da parte di diversi testimoni) per un rapimento che – secondo le fonti ufficiali – si consuma solo nell’ambito familiare? Perché una sproporzione di questo genere? C’è un nesso tra tutto questo e la testimonianza di un uomo a volto coperto che l’altra sera ai giornalisti di Chi l’ha visto? ha dichiarato che nel gruppo dei rapitori di Denise c’è stato un soggetto vicino al boss Matteo Messina Denaro?
2) Perché quando gli organi di informazione vogliono, riescono a sostituirsi efficacemente agli inquirenti? Al netto degli “assalti” improvvisi alla vita privata di Anna Corona (madre di Jessica, e sospettata di essere coinvolta nel rapimento), che merita sicuramente più rispetto (ricordiamo l’archiviazione dell’indagine a suo carico scattata subito dopo il fatto), probabilmente si deve (anche) alla televisione (oltre che agli attuali inquirenti) il salto di qualità nell’indagine. È vero che certe incursioni possono e devono essere risparmiate per rispetto di una privacy sacrosanta alla quale non possiamo appellarci a giorni alterni, ma è anche vero che il lavoro investigativo di un giornalista deve essere incalzante: anche un piccolo indizio non va trascurato, anche una piccola contraddizione va riscontrata e confrontata con quanto emerso nel processo. La stampa, oggi, a prescindere da certe esagerazioni, sta facendo esattamente questo. Il suo dovere. Ha acceso i riflettori. È grazie a questo che il vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, in sintonia con la mamma della bambina, ha esortato gli eventuali testimoni a parlare. E’ grazie a questo che nello studio dell’avvocato Frazzitta (legale di Piera Maggio) è arrivata una lettera anonima molto circostanziata – su un ricordo risalente a diciassette anni fa – in cui si descrive una bimba che piange a bordo di un’auto scura occupata da tre uomini. E’ grazie a questo – secondo quanto rivela il quotidiano online livesicilia – che l’anonimo, oggi, si è fatto vivo recandosi nello studio di Frazzitta e raccontando altri particolari interessanti.
Ma ci sia concesso di chiedere: perché quando si tratta di semplici casi di cronaca nera, la tivù riesce a stare sempre sul pezzo, mentre quando si tratta di vicende che hanno a che fare con situazioni che vedono il coinvolgimento delle alte sfere istituzionali (vedi il caso di Attilio Manca, solo per fare un esempio), spesso si gira dall’altro lato?
Nella foto: Denise Pipitone con la mamma Piera Maggio in una foto scattata prima del rapimento
Luciano Mirone
Condivido tutto ciò che hai scritto Luciano.