Ha ragione Maria Falcone (sorella di Giovanni) quando dice: non possiamo accettare che Giovanni Brusca, dopo 25 anni di carcere, sia un uomo libero, ma al tempo stesso – aggiunge – dobbiamo capire che è il prezzo che lo Stato deve pagare per conoscere molti segreti di Cosa nostra di cui, senza l’apporto dei pentiti (e Brusca è un pentito), esso non sarebbe venuto a capo. Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) dice la stessa cosa, Antonio Ingroia idem, e così via.
Ma hanno ragione anche i sopravvissuti alle stragi come Giovanni Paparcuri, come Giuseppe Costanza, come tanti altri, quando dicono che venticinque anni fa, un attimo dopo l’arresto di Brusca, lo Stato avrebbe dovuto gettare la chiave a mare, e lasciare che ‘u verru (il maiale, come è soprannominato a San Giuseppe Jato) marcisse in galera per tutta la vita.
Chi ha ragione? Non ci sentiamo di dirlo, per il semplice motivo che ci sono delle ragioni plausibili dall’una e dall’altra parte.
Tutti – chi in un modo, chi nell’altro – sono stati colpiti in maniera devastante dalla crudeltà di Cosa nostra, eppure con semplicità pongono un tema centrale, su cui l’opinione pubblica si spacca da un quarto di secolo.
I primi prendono atto delle leggi dello Stato, grazie alle quali si sono fatti passi avanti nella lotta a Cosa nostra.
I secondi sono portati a privilegiare le leggi dell’uomo, che, badiamo bene, non sono quelle della vendetta o dell’occhio per occhio dente per dente, ma quelle che scaturiscono da convincimenti etici molto profondi: uomini di Stato che rispettano lo Stato al punto da sacrificare tutto, non accettano l’idea che lo Stato – per conoscere certi segreti – possa scendere a patti con chi ha premuto il pulsante della strage che ha fatto a pezzi Falcone, la moglie Francesca, e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani; che ha sciolto nell’acido un bambino inerme come il piccolo Giuseppe Di Matteo, “colpevole” di essere il figlio di un pentito; che ha ucciso decine e decine di persone. Non accettano un do ut des così inumano e sproporzionato: troppo basso, da un lato, il prezzo pagato da uno stragista e pluri assassino come Brusca; troppo alto, dall’altro, il prezzo che le istituzioni devono pagare per portare avanti la lotta contro Cosa nostra, che comunque fa parte dei doveri primari.
Anche perché – diciamolo chiaramente – il pentimento di ‘u verru non ricorda neanche lontanamente quello di Francesco Bernardino Visconti, l’Innominato di manzoniana memoria, che arriva alla conversione attraverso un travaglio dell’anima fatto di lacerazione e di lacrime.
E non ricorda neanche quello di Tommaso Buscetta, che a Falcone ha continuato a raccontare fatti e misfatti di Cosa nostra, malgrado le vendette dei boss consumate nei confronti di figli e di parenti prossimi al boss dei due mondi. Dal carcere non abbiamo avuto notizie di un Brusca dilaniato dal rimorsi e dal dolore.
È vero che hanno ragione (e ragioni) gli uni e gli altri, ma è anche vero che la pena detentiva non può essere commisurata soltanto al “peso” delle confidenze svelate, ma proporzionata (anche) alla ferocia delle azioni commesse.
Nella foto: Giovanni Brusca davanti al ritratto fotografico di Falcone e Borsellino
Luciano Mirone
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