Guardare la storia con gli occhi dei padri e descrivere una delle vicende più dolorose dell’Unità d’Italia con la “rabbia” di chi ha sempre “sentito” la voce del sangue. Raccontare “I fatti di Bronte” dopo centosessantun anni e riportare le lancette dell’orologio al 1860, quando Garibaldi, sbarcato a Marsala per scacciare i Borboni, prometteva la terra ai contadini, mentre ai piedi dell’Etna i “viddani comunisti” che rivendicavano le terre “comuni” della Ducea, scannavano undici “cappeddi” con l’odio feroce di chi, dopo secoli di vessazioni, non è assetato solo di giustizia, ma soprattutto di sangue.
E ricordare il ripristino della “legalità”, dopo la dichiarazione dello “stato di guerra”, da parte del generale garibaldino Nino Bixio, che fece fucilare cinque “sediziosi”, fra cui l’avvocato Nicolò Lombardo, capo dei “comunisti”, assieme a certo “frà Iunco”, considerato lo scemo del paese.
Roberto Cannata, ex Sovrintendente comunale al Castello di Nelson, è il discendente di due protagonisti di quei fatti: il notaio Ignazio Cannata e l’avvocato Antonino Cannata, padre e figlio, trucidati barbaramente in quei giorni di tumulti che si verificarono dal 2 al 10 agosto a Bronte. Sei generazioni lo dividono dal primo e cinque dal secondo. Una testimonianza preziosa anche se del tutto “soggettiva”, in quanto proveniente, seppure indirettamente, dalla “viva voce” di chi fu protagonista di quella tragedia.
Nel giro di qualche ora si consumò tutto, la felicità per una libertà conquistata e l’infelicità per una tragedia annunciata, la festa di chi scendeva in piazza al grido di “Viva la libertà”, e la frase fatale del notaio Cannata, che al cospetto della bandiera tricolore stesa nel balcone del Circolo dei Civili, disse “Chi è ‘sta pezza lorda?”.
“Tempi di tensioni e di fame, che non si possono capire con il benessere di oggi”, dice Roberto Cannata. Tempi di fortissime divisioni anche all’interno della stessa borghesia: da un lato i “ducali”, convinti filo borbonici, che avevano la gestione della Cosa pubblica e non volevano cedere le terre della Ducea, dall’altro l’avvocato Nicolò Lombardo, il quale, benché sposato con l’aristocratica Rosa Spedalieri e benché testimone di nozze di Antonino Cannata, fu a capo dei “comunisti” che misero a ferro e fuoco il paese.
“La storia ufficiale”, afferma Roberto Cannata, “parla di undici persone trucidate, ma secondo certi documenti pare che fossero stati molti di più. Non si capisce come nei registri di stato civile manchino tanti fogli, così come nei registri della Chiesa. Il garibaldino Cesare Abba, venuto al seguito di Nino Bixio, scrisse di aver visto bambini sgozzati, case bruciate dove morirono alcuni proprietari, suore alle quali era stato tagliato il seno, seminaristi trucidati ai piedi del loro rettore”.
Una ricostruzione che contrasta con quanto scritto dallo storico Benedetto Radice che, intorno agli anni Trenta del secolo scorso, raccogliendo le memorie di diversi testimoni diretti, parlò di “tredici morti da un lato e di cinque dall’altro”.
“Il notaio Cannata”, prosegue il pronipote, “fu fatto oggetto di stilettate violente. Addirittura qualcuno millantava che avrebbe mangiato il suo fegato. Moribondo, fu posto su una catasta di legna e bruciato vivo. Qualcuno ipotizzò che fu pure evirato e qualcuno scrisse che una donna avesse affondato la mano nelle sue viscere”.
Ma non finì qui. “Il figlio Antonino, nascostosi in casa per sfuggire alla furia dei contadini, fu sollecitato dallo stesso Lombardo ad uscire in strada. Erano compari, c’era grande fiducia fra loro. Nel momento in cui Lombardo, del tutto in buona fede, diceva all’amico ‘pace, pace, pace’, scendevano dalla strada dei carbonai capeggiati da tale Gasparazzo, il quale, accortosi che il figlio del notaio era uscito, gli sparò due colpi di fucile alla presenza della moglie incinta e dei due figlioletti in tenera età. La mia famiglia trae origine da uno di questi due bambini, Giuseppe Cannata, il mio bisnonno”.
Eppure è strano che Lombardo, appartenente a una famiglia alto borghese, avesse sposato la causa dei “comunisti”. “Ognuno ha la propria indole”, seguita Cannata. “Evidentemente all’avvocato Lombardo stavano a cuore le sofferenze dei meno abbienti. Allora i contadini vivevano in condizioni disumane. Basti pensare che nel 1535 Carlo V raccomandò ai randazzesi i tuguri di Bronte. Dopo quattro secoli, lo scrittore Carlo Levi trovò una situazione analoga”.
Dottor Cannata, nella sua famiglia si parlava di queste cose? “Sì, però io ho cercato di capire i problemi di allora attraverso le letture”. E che idea si è fatta? “Che lo sbarco di Garibaldi avvenne in un contesto storico in cui l’analfabetismo era all’apice, tutto veniva recepito in modo anomalo e violento, specie quando si parlava della spartizione delle terre. Garibaldi non poteva dare i terreni che appartenevano alla Ducea di Nelson. Perché? Essendo possedimenti inglesi, non poteva assegnarli, in quanto nello sbarco era stato aiutato dalle navi britanniche. Le terre del demanio, comunque, attraverso l’abolizione delle promiscuità, erano già state liberate dai Borboni: in teoria ognuno poteva acquistarle, ma in pratica molte di queste erano state usurpate dai nobili. Le tensioni accumulate in tanti secoli scoppiarono proprio allora e scatenarono una guerra”.
Luciano Mirone
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