Finalmente in Italia una persona ammalata in stato terminale può scegliere di porre fine alla propria “pseudo-vita” senza che chi stacca la spina per lui venga sbattuto ingiustamente in prigione.
Direi che ciò corrisponde ad un senso di civiltà e di libertà fondamentale, soprattutto per chi assiste respiro dopo respiro, dolore dopo dolore, questi ammalati. Credo fortemente che difronte ad una decisione così delicata e compiuta da parte di una persona lucida, non occorre alcuna mossa di giudizio né da parte della Chiesa – la quale ha giocato un ruolo di difesa verso la “non morte” – né da parte della magistratura che fino a ieri non tutelava a dovere chi, per l’appunto, compiva l’azione per conto dell’ammalato.
Era proprio ora di mettere ben in chiaro i tre punti cardine di una situazione perniciosa com’è la morte volontaria assistita. Desidero riportarli, perché specchio di una civiltà che finalmente si emancipa.
Punto primo: la persona ammalata ed in stato terminale, deve essere integra nelle facoltà mentali.
Punto secondo: la condizione di salute diagnosticata, deve dare conferma dello stato terminale. Il paziente deve assumere completa responsabilità della sua scelta.
Punto terzo: l’ammalato può scegliere di cambiare idea fino all’ultimo istante.
Le leggi ben fatte e ottimamente messe in vigore, come in questo emblematico caso, prestano concreto supporto a coloro che decidono di servirsene, ma ciò non vuol dire che questi ne debbano usufruire.
Per usare una metafora, si potrebbe benissimo dire che delle leggi così “ben fatte” corrispondono a vestiti molto eleganti che fa comunque comodo tenere in armadio. Anche se non indosseremo mai quel vestito e non andremo mai in quel galà, ci fa comodo tenerlo dentro l’armadio.
Sono un uomo di 50 primavere inoltrate e penso che la vita sia un dono, nonostante mi trovi in carrozzina, ma sono altrettanto convinto che questo percorso sia molto faticoso e snervante in tutti i momenti della giornata, soprattutto per chi vive al mio fianco.
Di certo, trovarsi costretti su un letto nella drammatica attesa della “vita successiva” o del “nulla assoluto”, porta a ragionare sul proprio dramma personale. In quei letti di dolore immane, non vi abita solo l’ammalato, ma c’è tutto un mondo di emozioni, di reazioni spesso atroci che provengono dai famigliari o da amici, che spesso possono apparire irrazionali e incomprensibili.
Credo quindi che occorre porgere attenzione e dare supporto anche a chi condivide con l’ammalato circostanze così drammatiche, difficilissime da sostenere da soli.
Il mio – anche se povero – vuole essere un grido. Per favore diamo aiuto a chi resta a vedere un letto vuoto dopo la legittima dipartita, in quanto la condizione psicologica di chi resta “al di là della staccionata” non deve essere data per scontata.
Mi sovvengono le parole pronunciate da Gesù di Nazaret, nel momento esatto della sua presa di coscienza; tradito da Giuda detto Iscariota e già consapevole della sua morte in croce, rivolgendosi a Dio come Padre, esclama: “Padre, allontana da me questo calice di dolore… “.
Ecco, questo è, secondo me, il fulcro della tematica in questione. Pensiamo a un onnipotente come solo il Nazareno è, e riflettiamo. Quando la sofferenza tocca il suo culmine, anche uomini come Gesù Cristo, si arrendono.
Badiamo bene, è un atto di estrema onestà e non di debolezza, come potrebbe essere interpretato dai più. “Allontana da me questo dolore”, è un’invocazione più che legittima.
È necessario decidere per se stessi, sia della propria vita che della fine della nostra storia, se siamo capaci di governare al meglio la Ragione.
Arcangelo Gabriele Signorello
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