L’imprenditore di Belpasso (Catania) Mario Cavallaro si trova in località ignota e protetta e vive sotto scorta per l’”alto rischio” che corre come testimone di giustizia (da non confondere con la figura del collaboratore di giustizia). Per lui è scattato il programma di protezione riservato alle vittime di estorsioni, di “pizzo” e di usura, che, con le loro testimonianze, si rivelano preziose per far luce nell’oscuro mondo di Cosa nostra.
Un provvedimento firmato dal Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, ed eseguito dal capitano dei Carabinieri di Paternò, Cipolletta. Nel giro di qualche ora l’imprenditore ha preparato un borsone, è stato prelevato dai militari del Nucleo operativo, che lo hanno consegnato ai colleghi del Nop.
Da alcuni anni Cavallaro da deciso di denunciare alla magistratura i tentativi di estorsione da parte dalle cosche che da diverso tempo mettono a ferro e fuoco la Sicilia orientale, specie la provincia di Catania, dove egli lavora soprattutto nel settore pubblico. Con le sue denunce, Mario Cavallaro ha fatto arrestare e processare diversi esponenti dei clan. Due i processi (l’imprenditore è assistito dall’avvocato catanese Enzo Guarnera, mentre la moglie e l’associazione Libera impresa dall’avvocato Carmelo Frisenna) che con le sue dichiarazioni ha fatto innescare: quello nei confronti del clan Aparo-Trigilia di Siracusa, conclusosi in primo grado con la condanna degli imputati, l’altro, in dirittura d’arrivo, contro le Famiglie Santapaola-Ercolano.
In questa intervista rilasciata qualche tempo fa a questo giornale, Mario Cavallaro spiega i motivi che lo hanno indotto a denunciare, le intimidazioni subite, culminate nei frequenti danneggiamenti all’interno del suo capannone (ancora oggi all’ordine del giorno), in qualche pestaggio e addirittura in un paio di sequestri di persona.
Mario Cavallaro, imprenditore di Belpasso del settore edile, dichiara di avere subito nel corso del tempo dei danneggiamenti e dei furti anche gravi collegabili alle denunce che ha fatto contro la criminalità organizzata dedita soprattutto alle estorsioni, che nel tempo – dice – ha cercato di infiltrarsi nella sua azienda, lo ha sequestrato per ben tre volte e lo ha pestato un paio di volte. L’ultimo atto dimostrativo, in questi giorni, quando nella sua impresa di Piano Tavola, secondo quanto denuncia lui stesso, sono stati rubati diversi mezzi meccanici del valore di 350-400mila Euro. Sarà una coincidenza, ma proprio ieri l’imprenditore ha deposto in un processo contro Cosa nostra scaturito dalle sue denunce. Cavallaro, quando inizia questa storia?
“Da quando ho fatto la prima denuncia, anno 2005. La mia ditta si trova presso la zona industriale di Piano Tavola (frazione di Belpasso), dove posseggo un capannone. Inizio a denunciare sia le richieste estorsive, sia una serie di tentativi di mediazione per cercare di far lavorare persone di un determinato ambiente. Da lì in poi inizia una escalation di furti, di danneggiamenti, di incendi ed altro. Da quando sono iniziati i processi che mi vedono testimone di giustizia e parte offesa, la situazione si è intensificata”.
Quando sono iniziati i processi?
“Si tratta di due procedimenti, suffragati dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Il primo è cominciato nel 2014, il secondo nel 2017. Entrambi sono in corso di dibattimento. Ogni volta che deve esserci un’udienza, ricevo puntualmente un avvertimento: l’uccisione dei cani, le ruote della macchina tagliate, le minacce nei confronti di mia madre, l’irruzione in azienda dove entrano negli uffici e calpestano la foto di mio padre, e adesso, in questi giorni (dal 12 al 24 marzo), sono entrati per tre volte e mi hanno privato di tutta l’attrezzatura utile per poter continuare la mia attività: camion con gru, escavatori, bob cart, macchina taglia asfalto, martelli pneumatici, insomma tutti mezzi che ho acquistato da quando, il 31 gennaio 1992, all’età di 21 anni, ho iniziato questa attività. Naturalmente ho denunciato tutto ai carabinieri”.
Quante denunce ha fatto?
“Trentasei. Alla Procura della Repubblica di Catania, ai Carabinieri di Paternò e ai Carabinieri di Belpasso. Il Nucleo operativo di Paternò mi ha sempre seguito. I due processi sono a carico del clan Aparo-Trigilio di Siracusa, di cui ho fatto arrestare (29 agosto 2014) il reggente Angelo Monaco, assieme al genero Paolo Mirmina Spatalucente, altro elemento di spicco catturato mentre, sotto il controllo delle Forze dell’ordine, versavo la tangente che mi aveva richiesto per dei lavori che avevo svolto a Ispica per la costruzione del Centro di protezione civile della Regione”.
E l’altro procedimento?
“E’ a carico di esponenti del clan Santapaola-Ercolano di Catania e vedono coinvolti gli Schillaci (detti Mattiddina) di Piano Tavola, e poi Ignazio Barbagallo, responsabile della Famiglia Santapaola nel territorio di Camporotondo Etneo, San Pietro Clarenza e Belpasso; Mirko Casesa che rappresenta il gruppo di Mascalucia, facente capo a Piero Puglisi, elemento storico di Cosa nostra catanese. Fra questi, anche l’imprenditore di Belpasso Santo Tomasello, prestatosi a operazioni fatte con loro e per loro a mio danno”.
Quando iniziano i suoi problemi?
“Quando mi insedio a Piano Tavola. Durante la mia attività avevo fatto lavori pubblici importanti come l’ospedale di Taormina (2000), la villa principale di Misterbianco, la Quinta chirurgia all’ospedale Ferrarotto di Catania”.
Come avvengono queste richieste?
“Si presentano in forma amichevole, quasi per aiutarti”.
Facciamo un esempio concreto.
“All’inizio di un lavoro comincio a fare lo sbancamento. Si presentano dei soggetti: ‘Siamo degli amici, se ti serve dove posare i mezzi siamo a disposizione, noi qui giriamo sempre, diamo un occhio alla tua azienda, ci fa piacere che stai facendo queste cose, dai lavoro a dei padri di famiglia’. Si presentano così. E ti portano pure il caffè. Ho sempre rifiutato, consapevole che queste ‘amicizie’ vanno a parare sempre in un punto”.
E quando rifiuta che succede?
“Ma perché non vuole essere amico nostro, qua sono tutti amici, e noi che abbiamo la rogna?’. Questo discorso va avanti fino a quando completi le opere. Le richieste a volte vengono fatte anche attraverso un dipendente o un fornitore. A un certo punto inizio ad avere a che fare con Santo Tomasello, l’imprenditore del mio paese che consideravo fuori da certi ambienti. Man mano, quando ho iniziato a dire ‘no’, lui ha cercato di intimidirmi”.
Eravate soci?
“Abbiamo fatto una riunione temporanea di impresa (Rti). Lui originariamente faceva il carpentiere, non aveva mai fatto lavori pubblici: l’ho inserito io nel circuito delle opere più importanti, e man mano vedevo che venivano a cercarlo personaggi loschi. Tra l’altro consideriamo che in azienda, in quel periodo, ci stavano mia moglie e i miei figli: ‘Scusa, ma ‘sta gente qui che viene a fare? Questi non li voglio’, gli dicevo. A quel punto, anche per certe spese ingiustificate che doveva corrispondere agli ‘amici’, rompo il sodalizio con Tomasello. Da quel momento iniziano i miei problemi”.
Quali problemi?
“Mi hanno sequestrato. Per tre volte mi hanno pestato in maniera anche brutale”.
Sequestrato?
“I sequestri sono tre. Il primo avviene nel febbraio 2005, quando mi danno l’avvertimento, perché devo immediatamente ritirare le denunce ai carabinieri e agli avvocati ai quali mi sono rivolto”.
In che modo avvengono questi sequestri?
“Le modalità avvengono presso l’azienda, dove prendono me e il capo cantiere. Mi fanno salire in macchina e mi portano fuori”.
Lei in quel momento è cosciente di quello che sta succedendo?
“Assolutamente sì. Con l’aggravante che il fatto si è verificato davanti a mia moglie in gravidanza, alla segretaria e ad altre donne”.
Quindi che succede?
“Man mano si va avanti. In quel momento posseggo delle quote societarie per delle operazioni che si stanno facendo nella zona di Belpasso. Quote societarie che detengo insieme a Tomasello e a Basilotta di Castel di Iudica, costruttore di Etnapolis, all’epoca dei fatti non così famoso come le indagini ci avrebbero fatto scoprire. Quando mi rendo conto che entrambi sono vicini a certi ambienti ne prendo le distanze”.
Lei Basilotta come lo conosce?
“Avevo dei terreni di famiglia a Castel di Iudica. Poi lui comprò l’ex cava Costanzo di Belpasso e mi venne a cercare perché mi servissi da lui per delle forniture di calcestruzzo e di materiale vario. Durante la costruzione di Etnapolis mi chiese un appoggio perché doveva posare dei mezzi. Veniva spesso in sede. In quelle occasioni mi propose di fare delle cose insieme. In quel momento c’era una grande richiesta di villette nel territorio. Però, mi disse, queste operazioni, senza Tomasello non si possono fare. Quando scoprii che Tomasello aveva amicizia con il rappresentante di Cosa nostra Ignazio Barbagallo, e che tutti erano collegati con la criminalità organizzata, decisi di mettere le cose in chiaro”.
E poi?
“Vengo costretto a cedere le mie quote societarie. E come? Attraverso il pestaggio davanti alla mia azienda. Mi hanno aspettato, sapevano che ero sempre l’ultimo ad uscire, si avvicinano con due motorini, mi puntano una pistola e mi dicono che nel cantiere delle villette in costruzione non ci devo mettere più piede. A quel punto, per evitare altre ritorsioni, decido di cedere le mie quote (una valeva 184mila Euro). Ma questo non basta”.
Perché?
“Gli Schillaci continuano a dire che io a Piano Tavola non posso stare. Per tale motivo, nel 2012, vengo pestato nuovamente da sei persone. Scappo grazie all’arrivo provvidenziale di un cliente. Denuncio tutto ai carabinieri, e il tenente Della Corte del Nucleo operativo di Paternò identifica gli aggressori: sono i cugini e lo zio di Schillaci. Nel 2008 le ritorsioni continuano. Dato che non voglio ritirare le denunce, né chiudere le azioni legali intraprese nei loro confronti, una sera si presentano all’ingresso della mia azienda, mi buttano per terra, mi puntano la pistola al collo e mi prendono a calci. Quella volta non riesco ad identificarli a causa del buio. In quel periodo il gruppo di Mascalucia mi manda il proprio rappresentante, Mirko Casese: ‘Noi una cosa non possiamo sopportare: i vàddia (gli sbirri) e gli avvocati”.
Lei, come ha detto, ha cominciato a fare l’imprenditore nel 1992, in un momento in cui la mafia spadroneggiava in Sicilia con l’avallo, spesso, delle istituzioni deviate. Perché denuncia dopo alcuni anni e non immediatamente?
“Con il mio lavoro avevo subìto delle richieste e degli avvicinamenti, ma non di questo tipo. In ogni caso ero sempre riuscito ad evitare pagamenti, estorsioni e quant’altro. In questo caso, invece, non solo avevo la netta percezione di quello che volevano impormi (gli operai che dovevano lavorare, le ditte dove comprare i materiali, la loro presenza assidua con la pretesa che consegnassi loro pure le chiavi del capannone), ma anche del fatto che volevano farmi diventare uno strumento nelle loro mani. Questo è il motivo per il quale mi ribello”.
C’è stato un momento in cui ha pensato di mollare tutto perché magari si era messo in un gioco troppo grande?
“Dato che mio padre, impiegato in banca, era morto giovanissimo, fui assunto dallo stesso istituto di credito. Entrai in banca giovanissimo, stetti una settimana, poi cedetti il posto a mio fratello: ho sempre voluto fare l’imprenditore. Non sono entrato in questo gioco più grande all’improvviso, man mano sono cresciuto e mi sono impegnato molto. Non avevo problemi di liquidità, non mi sono mai rivolto a usurai”.
Sì, ma negli anni Novanta, in cui Cosa nostra è fortissima, un imprenditore come lei come si muove?
“Fino a quando è un piccolo artigiano (all’epoca facevo lavori di venti, trenta milioni di vecchie lire) riesce a vivere senza avere fastidi. L’imprenditore comincia ad essere sotto attenzione quando comincia ad avere molti dipendenti e volumi d’affari importanti. A quel punto ti avvicinano perché vogliono il controllo delle attività economiche nel territorio”.
Nel momento in cui hanno rubato tutti questi mezzi dalla sua azienda, cosa farà?
“In questo momento sono senza nessuna possibilità di lavorare. Devo dire che la Procura e i Carabinieri hanno svolto il loro lavoro in maniera eccellente e scrupoloso, però lo Stato è troppo lento, troppo burocratico nell’aiutare per i testimoni di giustizia e le parti offese nei processi di mafia. Io ricopro entrambi i ruoli. Dato che ha dovuto vendere tutto il patrimonio di famiglia per oppormi a questi soprusi, adesso cosa devo fare?”.
Che messaggi lancia ai colleghi imprenditori?
“Che se non si vuole finire sottomessi, l’unica strada è la denuncia allo Stato. È una strada lunga e difficile, ma è l’unica percorribile”.
Luciano Mirone
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