E’ in tutte le librerie il nuovo libro di Giacomo Pilati “La mia vita per gli ultimi” (edizioni Il Pozzo di Giacobbe), scritto a quattro mani con Biagio Conte, il frate missionario scomparso alcuni mesi fa in assoluta povertà, che ha rinunciato agli agi della sua famiglia di origine per spendere la sua vita nell’accoglienza dei poveri, dei senza tetto, delle prostitute e degli extracomunitari di Palermo. Un volume che è un pugno nello stomaco in una società che spesso si volta dall’altra parte per non vedere il disagio degli ultimi che vivono ai margini della società. Un viaggio, come scrive Pilati, dentro un’emozione durata una vita intera. Una storia di amore, un privilegio raccoglierla e raccontarla. Il libro si avvale della prefazione del Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e dei contributi di don Pino Vitrano e di Corrado Lorefice (arcivescovo di Palermo). “Pochi giorni prima di morire – dice l’autore – Biagio Conte mi chiamò: aveva un filo di voce. Non ne aveva per molto, infatti poco dopo venne a mancare. Mi colpì la sua serenità e la sua voglia indomita di continuare ad aiutare i poveri”. La sua opera, che viene proseguita a Palermo dai volontari della Missione Biagio Conte, prosegue instancabilmente a favore dei diseredati. Quello che segue è un capitolo del libro (l.m.)
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“La strada era finita. Palermo era là, davanti ai miei occhi. E non erano i piedi a tormentarmi. Ma la fatica di avere scoperto, come una rivelazione, un altro modo di vivere. Lontano da quello, sbrigativo e indifferente, che mi lasciavo alle spalle. Ero stato toccato da qualcosa che ora mi possedeva.
Un sentimento religioso, un’espansione profonda dell’anima. Un frastuono che era diventato musica. Palermo mi mostrava le sue ferite. Di nuovo, sempre uguali. Ma ora io avevo altri rumori in testa. Bum, bum, l’Africa mi batteva dentro come un tamburo. Sopraffatto dal desiderio di confrontarmi con le emergenze del mondo.
Per provare con le mie mani quella forza che mi aveva cambiato la storia. Miserie che non hanno bisogno di firme e carta bollata per essere alleviate, servono le braccia per ottenere risultati: il sorriso di un bambino che ha mangiato, gli occhi di un vecchio che non ha freddo. Senza essere costretti al giudizio degli altri.
Dall’altra parte del mondo. Palermo invece mi aveva ingannato, le sue belle parole non portavano da nessuna parte; buoni e cattivi si confondevano immobili nel pensiero. Prima di riprendere il viaggio volevo farci pace. Riconquistare le mie origini, un desiderio lontano, uno smarrimento di incomprensioni, un giro di testa. Un senso da trovare fra mille deliri, fra le pieghe remote di quello che ero stato. Un cammino nelle viscere del mio passato. Avevo occhi nuovi, ora volevo ripassare ogni cosa.
Col cuore sano. Mia madre era felice di ritrovarmi a casa, mio padre confidava negli sgoccioli della mia follia. Pensava che, alla fine di questa avventura, sarei tornato in cantiere. Ma il viaggio non era finito, la polvere e le pietre continuavano a chiamarmi. Palermo mi aspettava, volevo toccare tutti i suoi angoli, con i piedi, con le mani, da uomo nuovo, fortificato dalla luce, dalla fede in Dio. Ho girato come un matto i vicoli di ogni quartiere.
In un quaderno appuntavo la vita, le abitudini, i bisogni, un censimento delle necessità. Incontravo le persone che vivevano dentro quelle scatole grigie di cemento. Difficoltà più grandi di loro, una macchina spietata che annullava i desideri e li costringeva a vivere senza niente, inseguendo cose da poco: i consumi, la televisione e il suo mondo apparentemente raggiungibile. Quei muri nascondevano sofferenze che qualcuno doveva sopportare, farsene carico, buttare fuori da quelle porte. Una solitudine confusa dalla promiscuità del vivere lì per forza, senza scelte. Nel rione dello Sperone le contraddizioni erano più forti che altrove, una zona dimenticata dai sogni e dalle speranze.
Cemento, letti, pane, pasta, sugo, disperazione, niente, noia. E cittadini emigrati dai quartieri storici di Palermo, Ballarò, Vucciria. Mi sedevo al centro della piazza più grande e leggevo a voce alta il Vangelo. Si avvicinavano i giovani, e ascoltavano. Tutti mi chiedevano chi sei, cosa fai, ma soprattutto perché lo fai. Forse per la prima volta si interrogavano su qualcosa, e questo era già un risultato. Io ero diverso da loro, la mia presenza li spingeva a confrontarsi, una ferita lunga nelle certezze di chi è privo di accostamenti.
Io facevo domande a tutti. Volevo sapere la storia di quelle case, quando erano state costruite, perché non venivano pulite le aiuole, di chi era la colpa di quell’asfalto divelto e pieno di buche. Le cause del disagio della società erano lì davanti a me. In un ambiente così è facile farsi aggredire dalla gramigna, il disordine, la sporcizia sono alleate col malaffare. Non basta pregare per raddrizzare il destino.
Le opere, servivano le opere. Avevo bisogno di coinvolgere tutti. Convinsi mio padre a prestarmi scope, rastrelli, carriole e bidoni. In principio ero da solo a mettere ordine. Poi si sono uniti altri, eravamo sempre di più. Le discariche erano diventate giardini, le strade pulite, le panchine, il campetto di calcio.
Tutti potevano toccare con mano la buona volontà di pochi, un seme per fare crescere la speranza. La rinascita aveva bisogno di un simbolo, un monumento a quello sforzo di cambiare le cose. Una croce di pietra. Tutti aiutavano come potevano, la sabbia, il cemento, la manodopera. L’entusiasmo dei ragazzi era un virus che contagiava tutti. Gli adulti si avvicinavano, era nato un gruppo, una grande novità per un quartiere di estranei, senza relazioni.
Vedevamo crescere un progetto nostro, un’idea su cui tanti avevano detto sì. Due, tre ore al giorno di lavoro per mettere insieme più gente possibile. Ero riuscito ad aggregarli. Ora si conoscevano, quando si incontravano si salutavano, le nuove amicizie si moltiplicavano. Un campionato di calcio per i più piccoli aveva creato l’attaccamento ai colori del borgo. Un campanilismo sano che non poteva che fare bene in un posto che era poco più di un dormitorio. Il rispetto per il quartiere poteva farli vivere meglio. Meno soli. Sognando un vero campo di calcio, un vero polo di aggregazione”.
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