Un incubo. La favola del Pifferaio che si materializzava in un sogno, un insieme di immagini confuse che mi fecero precipitare nell’abisso.
Tantissimi topi. Nelle strade nelle piazze e nelle case. Saltellavano beffardi perfino sul tavolo del sindaco, il quale, disperato e impotente, non sapeva a quale santo votarsi. Il consiglio comunale, convocato in seduta straordinaria per decidere il da farsi, non riuscì a decidere nulla: per quell’immane disastro ci voleva una soluzione drastica, che nessuno conosceva.
Mentre le persone, deluse per l’infruttuoso esito della seduta, stavano per andar via, irruppe sulla scena un omino che chiese di parlare. L’aula era ancora gremita, il presidente gli concesse la parola, l’omino riuscì nello straordinario prodigio di far tacere tutti.
Tutti pendevano dalle labbra di quello sconosciuto che calibrava le parole, gestiva le pause, distribuiva sorrisi al momento giusto. La gente era rapita. “Cittadini, autorità…”, e tutti ascoltavano estasiati. “Vedete questo piffero? La sua musica riuscirà a fare il miracolo di sterminare questi maledetti topi”.
L’omino non finì di pronunciare la parola “miracolo” che l’aula scoppiò in un enorme boato: “Bravo!”. “Evviva”. E poi, all’unisono, rivolti verso il sindaco: “Dategli quello che vuole, basta che ci liberi di questi esseri immondi”.
Mi giravo e mi rigiravo nel letto, sudavo, cominciavo ad avere il sentore di quello che sarebbe avvenuto, parlavo e straparlavo… Oddio, adesso farà come nella favola, comincerà a suonare la musica per i bambini e loro gli correranno dietro e resteranno imprigionati nella montagna per sempre.
Nel sogno l’epilogo non fu questo: a seguire il pifferaio, invece dei bambini, furono gli adulti, una moltitudine di persone che scendevano in strada, ammiravano l’omino, lo toccavano, gli chiedevano l’autografo, canticchiavano le parole che lui spargeva nell’aria. E poi, di corsa, dietro di lui, eccitati per il miracolo promesso dalla musichetta.
Solo i sordi, non riuscendo a sentire la musichetta, urlavano a squarciagola: “Ma dove andate… Siete impazziti?”. Nessuno li ascoltava, nessuno li vedeva, tutti seguivano quel filo di melodia. I sordi erano disperati. Ognuno aveva almeno un parente che si stava perdendo dietro a quelle note.
Giunto ai piedi della montagna, l’omino pronunciò alcune parole magiche e il grande portone si aprì, tutti entrarono e sentirono lo schianto che si chiudeva alle loro spalle, poi il silenzio…
Volevo svegliarmi, sognai folle oceaniche a capo delle quali c’è sempre qualcuno pronto ad ammaliarle, ad abbindolarle, a farle sue, da un trespolo, da un palco, da un balcone. E poi ad imprigionarle dentro una montagna.
Quando mi svegliai fui assalito da una strana inquietudine. Accesi la tivù e vidi un uomo somigliante al pifferaio, che aveva compiuto le nefandezze più sordide. Pontificava a reti unificate: prometteva miracoli. L’Uomo Nuovo si presentava così.
Si era impadronito perfino delle nostre parole, che adesso diventavano i suoi slogan. Chi, fino a quel momento, aveva portato avanti molte battaglie civili per liberare questo Paese arretrò quasi preso dal
senso di colpa creato dalla tivù. Avevamo paura delle stesse parole che avevamo pronunciato con fierezza un mese prima.
Si preparava una bella stagione. Il Pifferaio fu osannato dai fascisti, dai democristiani più luridi, ma anche da tanti che ai funerali di Falcone e di Borsellino avevano urlato Via-la-mafia-dallo-Stato. E vinse alla grande.
I duttureddu-i-miei-rispetti cessarono improvvisamente. Il Senatore e tutta quella schiera di rampanti che nella piena di Tangentopoli si erano ritirati in attesa di tempi migliori, si ringalluzzirono e tornarono sulla scena più osannati che mai. Il cavaliere Coco, quando mi vide, sputò per terra e andò avanti per la sua strada.
Luciano Mirone
(tratto da “Itaca. Viaggio in un racconto dell’anima”)
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