L’intervista sul Ponte sullo Stretto all’ex sindaco di Messina, Renato Accorinti, è stata letta da tantissime persone, sia in Italia che all’estero. Segno che l’argomento è molto sentito e seguito. Commenti sul No all’opera sono giunti direttamente a questo giornale e su Facebook, mentre uno di parere opposto è arrivato su whatsapp da parte di un amico che vive in Piemonte. Poche righe ma molto significative, queste ultime, in cui si spiegano le ragioni del Sì, che vogliamo pubblicare perché riteniamo che sintetizzino il pensiero di molti fautori di una delle più grandi infrastrutture della storia d’Italia.
“Non conosco le dinamiche – scrive Claudio – , ma la mia ex moglie è danese e sono stato testimone della costruzione del ponte che unisce Danimarca e Svezia, un’opera meravigliosa dove sono transitato molte volte. Anche allora c’erano pareri opposti, tra l’altro, soprattutto da parte dei gestori dei traghetti. Poi se uno dice che le cose non vanno fatte per via delle mafie allora lasciamo la Sicilia e la Calabria al loro destino e non facciamo più nulla”.
Conosco Claudio da oltre quarant’anni. È una persona colta e sensibile. Con lui, da sempre, condivido certi principi etici che dovrebbero stare in cima alla scala dei valori di ogni essere umano.
Spesso per telefono ci confrontiamo su alcuni temi che riguardano il nostro Paese e ogni volta, a fine discussione, sono attraversato dalla stessa sensazione: abbiamo gli stessi valori, ma quando affrontiamo certi argomenti come la mafia e la politica, mi accorgo che osserviamo il fenomeno da prospettive diverse.
Parlare di mafia e di politica da Torino o da Asti non è lo stesso che parlarne da Palermo o da Catania. La mafia in Piemonte esiste da qualche decennio: è un fenomeno di “Palazzo” in certe realtà, ma in tutte indistintamente (dalle grandi città al paesino sperduto) è “centrale” per il traffico di droga che sta uccidendo la vita di milioni di persone, soprattutto giovani. Eppure dalla maggior parte dell’opinione pubblica viene vista come un fenomeno marginale, di cui non si comprende mai il nesso fra causa ed effetto.
In Sicilia la mafia esiste da secoli ed è un fenomeno che attraversa i gangli vitali della vita pubblica con dei contraccolpi drammatici nell’esistenza di molti esseri umani, non solo tossicodipendenti o familiari di questi. Qui c’è di più.
Spesso quando presento i miei libri (specie l’ultimo) racconto un aneddoto che può dare l’idea di quello che voglio dire: sono figlio di un ufficiale dei carabinieri. Quando da ragazzo mi confrontavo con i figli dei colleghi di mio padre (reduci da sedi come Bologna, Firenze, Milano, Roma, ecc.) mi facevo piccolo, mi vergognavo ad ammettere di essere stato quasi sempre in Sicilia, per giunta in posti sconosciuti e “mafiosi”.
Un grosso limite, ma al tempo stesso un grande privilegio, poiché questa esperienza mi ha dato la possibilità di comprendere l’essenza profonda della degenerazione profonda di questo Paese: i rapporti fra Cosa nostra, politica, massoneria e servizi segreti deviati.
Chi vive in Sicilia e sa osservarne la realtà, capisce molto prima di chi sta al Nord cosa voglio dire. Non perché sia più intelligente, ma perché è testimone diretto dei fatti.
Quali?
Il sindaco che va a braccetto col boss non lo vedi a Ponte di Legno, ma in Sicilia. Dopodiché succede che il segretario provinciale, regionale e nazionale del partito del sindaco, sia perfettamente consapevole che costui è amico del capomafia, ma siccome ha bisogno di quei voti chiude in un cassetto segnalazioni, esposti e denunce che gli sono pervenuti e continua cinicamente a fare politica.
A un certo punto, in quella zona, bisogna costruire una diga. L’appalto e i relativi subappalti non se li aggiudica la ditta più trasparente, ma quella del boss che va a braccetto col sindaco.
Si scatena una guerra di mafia perché i concorrenti – mafiosi anche loro – non ci stanno. La guerra lascia sul terreno decine di morti e feriti di entrambi gli schieramenti. Muoiono anche un giornalista ed un ufficiale dei carabinieri: avevano ficcato il naso sugli affari colossali dell’opera. Il giornalista si chiama Mario Francese, l’ufficiale è il colonnello Giuseppe Russo.
La diga viene costruita, ma il prezzo pagato è altissimo, sia in termini di vite umane, sia in termini economici (l’opera è costata dieci volte tanto): adesso la diga è lì ed è anche utile. Ma allora qual è il problema?
Purtroppo la Sicilia, la Calabria, la Campania e da alcuni anni anche il versante foggiano della Puglia, hanno pagato un tributo altissimo alle mafie. Se il fenomeno fosse circoscritto alla sola diga del corleonese, avremmo parlato di un fatto isolato e non ripetibile altrove. Purtroppo non è così. In Sicilia, a moltissimi appalti di una certa entità economica, è corrisposto (sempre) un altissimo numero di omicidi anche fra i componenti delle istituzioni. Al Nord non è così.
Al Nord la mafia è sempre stata un’entità remota, lontana, astratta. Solo dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio si è capito che Cosa nostra è un fenomeno nazionale ed internazionale. Ma la percezione che si ha del fenomeno è profondamente diversa. Lì ne senti parlare in TV, magari ti indigni e ti impegni, ma prosegui la tua vita di cittadino normale.
Qui la respiri, la subisci, ne cogli gli aspetti più misteriosi e drammatici: il sottosviluppo, la disoccupazione, l’ignoranza, l’assenza dello Stato, l’omertà, i tentativi di isolamento, il dolore. E ragioni sulle dinamiche che corrodono la vita stessa della Nazione.
Ecco perché di fronte ad un’opera che teoricamente dovrebbe portare progresso e benessere, la reazione fra due cittadini molto illuminati (il mio caro amico Claudio e l’ex sindaco Accorinti) è diversa. Il primo fa l’esempio della Danimarca e della Svezia e dice: il Ponte va fatto a prescindere dall’esistenza delle mafie; il secondo, oltre a mettere in discussione molte criticità oggettive (studiate dal mondo universitario e da scienziati molto qualificati) cita la frase di Nichi Vendola e di don Luigi Ciotti: “Il Ponte non unirà due coste, ma due cosche”.
Non è una frase qualsiasi. È l’allarme di chi conosce a fondo il problema: lo stesso che esiste per la diga del corleonese che produce morti a ripetizione. Con la differenza che gli interessi del Ponte sono molto più colossali di un invaso e già – a opera ancora ferma – hanno macinato tantissima denari solo di progettazione.
Tempo fa, per conto del Venerdì di Repubblica, feci un lungo reportage sull’argomento. Fra gli altri, intervistai un magistrato calabrese, il dott. Boemi, molto impegnato contro le cosche calabresi: era informatissimo sugli interessi che stavano portando avanti ‘Ndrangheta da una parte e Cosa nostra dall’altra per la compravendita dei terreni, per i subappalti e per gli appalti. Era talmente allarmato da invocare addirittura l’intervento dei servizi segreti per sventare in maniera efficace gli ingenti affari del Ponte. La politica ha posto il problema?
Allora crediamo che la vera questione dell’Italia non sia la mafia. Fino a quando ci sarà un sindaco che andrà a braccetto con un mafioso, e fino a quando ci sarà un segretario provinciale, regionale e nazionale che pronto a proteggerlo e a sostenerlo, i morti continueranno ad esserci, il traffico di droga pure e l’Italia sarà ancora divisa irrimediabilmente in due, mentre la “linea della palma” di cui metaforicamente parlava Sciascia per indicare i mali del Sud, si sarà spostata sempre più verso il Nord. E allora si cominceranno a confondere la periferia con l’impero e tutto rischierà di essere sempre più caotico e violento.
P.S.: qualcuno mi ha scritto se sono favorevole o contrario al Ponte sullo Stretto. Prima ero favorevole e litigavo pure con i sostenitori del No. Poi ho approfondito e studiato meglio l’argomento. Invito tutti a fare altrettanto.
Luciano Mirone
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