Non avevo mai visto Orioles piangere. L’altra sera, dopo il monologo di Luciano Bruno su “Librino”, una smorfia si è formata sul suo volto. Lunga, profonda, liberatoria e antica. Tutto questo non è avvenuto per caso. È successo in occasione del quarantesimo anniversario dell’assassinio di uno dei più grandi giornalisti italiani del dopoguerra: Giuseppe Fava.
Riccardo è un “figlio” di Fava. Luciano è un “figlio” di Riccardo. E tutti – padri, figli e fratelli – legati da un unico filo di lotte, di dolore e di sentimenti, partito oltre quarant’anni fa con I Siciliani ed arrivato fino ad oggi con i Siciliani giovani che, assieme all’Arci e a tante associazioni della Società civile, tengono vivo l’impegno di Fava attraverso le battaglie per l’assegnazione dei beni confiscati alla mafia. Non è una commemorazione. È un modo nuovo di fare antimafia: lavorando.
No, tutto questo non è avvenuto per caso. Basti pensare al luogo nel quale questa serata è stata organizzata: la discoteca Empire, un pezzo di città sottratta alla mafia di Nitto Santapaola ed Aldo Ercolano, rispettivamente mandante ed esecutore del delitto Fava. Un dibattito fra associazioni per proporre la destinazione da dare all’immobile: un dibattito a volte lungo, a volte un po’ “politichese”, ma quanta energia nelle parole di gente di sessanta, settant’anni perfettamente integrata con ragazzi di venti.
Un momento della performance di Luciano Bruno (foto Maurizio Parisi)
A tal proposito, ci sia consentito ricordare l’impegno di altri due straordinari protagonisti di questa storia: Giovanni Caruso, fotoreporter come pochi, giornalista e maestro di tanti giovani, e Matteo Iannitti, presidente dell’Arci e redattore di Siciliani giovani, impegnato dalla mattina alla sera in queste battaglie.
Nel pianto di Orioles, nel volto “pasoliniano” di Luciano, in quelle parole scandite in dialetto, l’altra sera ho rivisto Fava e i bambini di Palma di Montechiaro, il protagonista di Cronaca di un uomo e le invettive contro la mafia e i Cavalieri, le inchieste di Miki e di Claudio, di Antonio e di Rosario, le riunioni lunghissime di una miriade di ragazzini arrivati in redazione da tutta la provincia dopo la morte del direttore, Riccardo seduto per terra e intento a fare la differenza fra il giornalismo italiano e quello anglosassone e a disegnare il menabò per il prossimo numero.
Tutte queste immagini mi sono passate alla mente mentre Luciano raccontava la storia del ragazzo di Librino, dove negli anni Sessanta migliaia di persone dei quartieri poveri sono state deportate per ordine della politica, della mafia e dei Signori del cemento.
Ogni parola un pugno nello stomaco. L’architetto giapponese Kenzo Tange portato fin qui per illudere la gente che a Catania sarebbe nato un quartiere modello con piscine, campi di calcio, parchi, e invece solo asfalto e cemento, a dodici anni il primo scippo, a quindici la prima rapina, a diciotto il primo omicidio e nel Palazzo di cemento si spaccia dalla mattina alla sera.
Una “condanna” vivere in questa città di sessantamila abitanti lontana dalla città ufficiale. Una condanna decretata dai potenti fin da quando nasci. Luciano lo spiega in modo semplice e ogni parola ti esplode nella coscienza con la stessa dirompenza di un tuono.
La sua vita non è stata facile. È una storia nella storia. Quella sera di tanti anni fa, lui aveva una quindicina di anni. Gironzolava nei pressi della stazione, la sigaretta che gli penzolava dalle labbra, gli occhi tristi di chi non vede un futuro davanti a sé. Incontrò casualmente Fabio (Fabiolino D’Urso), che la mattina dopo l’uccisione del direttore, ancora quattordicenne, timido ed emozionato, si recò nella redazione dei Siciliani di Sant’Agata li Battiati per dire: “Sono a disposizione, però voi, per favore, continuate a fare questo giornale”. Da quel momento, “Fabiolino” entrò nel cuore di Riccardo e diventò uno dei suoi figli prediletti.
Ebbene. Quella sera, nei pressi della stazione, Fabiolino incontrò Luciano intirizzito dal freddo: poche parole. Poco dopo gli offrì un tetto nella sua casa di Catania che lui divideva con la famiglia. Da quel momento sono diventati fratelli inseparabili, entrambi figli di Riccardo. Da quel momento “Lucianino” ha partecipato alle riunioni di Siciliani giovani ed è diventato giornalista e drammaturgo di un teatro popolare che si inserisce nel filone verista di Verga, Capuana, Martoglio e Fava. A Fabio e Lucianino, nel quarantesimo anniversario della morte di Giuseppe Fava, è stato conferito il Premio alla carriera de I Siciliani giovani.
Bisognava vederli. Col vestito buono e con la felicità di chi riceve un riconoscimento significativo come il Pulitzer. Attorno a loro i sorrisi e gli applausi della “meglio gioventù”.
Luciano Mirone
Grazie Luciano