Quando il Rombo di Tuono squassava l’aria un brivido caldo fermava l’Italia che viveva il sogno irripetibile e magico del boom economico. E quando, poco dopo, visse l’incubo del terrorismo, il Paese continuò a fermarsi: perché quando un rombo ha le sembianze del mito, resti affascinato e rapito, a prescindere dal tempo, dalla storia e dalla squadra del cuore, e ti fermi, come quando ti raccontano le leggende degli eroi antichi.
Quel mito l’ho rivisto oggi, si chiama Gigi Riva e mi ha trasmesso le stesse emozioni di quando avevo otto anni, facevo la raccolta delle figurine Panini e alla radio ascoltavo “Tutto il calcio minuto per minuto” e restavo paralizzato anch’io nel sentire le sue gesta descritte da Enrico Ameri e da Sandro Ciotti.
Un meraviglioso docu-film trasmesso da Sky ne ha ripercorso le imprese, raccontando la bellezza del calcio di allora: nessun paragone tecnico fra ieri e oggi, solo la narrazione di una storia che racchiude i valori di un’epoca e di un giornalismo epico, simboleggiato da Gianni Brera, che in un giorno di particolare ispirazione, gli appioppò Rombo di Tuono. Successe dopo un gol: dalla tribuna si era sentita nettissima la “cannonata” di Riva, aveva squarciato lo stadio, era andata oltre, si era persa in cielo.
Quiandoi si parla dei valori di un tempo non si può prescindere dalla parola “terra”, scaturigine di tutti i calciatori di allora. Terra non è una parola comune, è l’essenza della vita, perché evoca tanto: umiltà, rispetto, sofferenza, sacrificio, passione, saggezza, gentilezza, genuinità.
Questo discorso è un po’ retorico, lo so, ma invito il lettore a cercare su internet una intervista a un calciatore degli anni Sessanta: c’è in quelle parole e in quegli sguardi la semplicità, il sorriso e la poesia di chi viene dalla terra, lo stesso mondo dal quale pochi anni prima era nata la lotta partigiana.
Scuole medio basse, nomi come Tarcisio, Ricciotti e Comunardo, facce scolpite nella roccia, matrimonio a vent’anni (o poco più), la festa del paese, il tricolore, la sera a letto presto, il risparmio, il lavoro, il signorina-si-accomodi quando si è sull’autobus, la messa la domenica, la prima comunione.
Gigi Riva è tutto questo, ma è anche tanto altro. E’ il ragazzo talentuoso nato in un paesino del varesotto, Leggiuno, che viene acquistato dal Cagliari e parte per un’avventura.
La Sardegna è una terra bellissima, l’immaginario collettivo non l’associa alle spiagge bianche, alle foreste dell’entroterra, ai monumenti, al turismo, all’ospitalità e alla dignità dei suoi abitanti. La identifica con i banditi, con i sequestri di persona, con la solitudine dei paesi interni. All’inizio Gigi è diffidente, gli bastano pochi mesi per ricredersi: la realtà è completamente diversa dai luoghi comuni di chi sconosce quella Terra. Lui e la Sardegna si piacciono a vicenda.
E questo può anche starci. Ma quando con i suoi incredibili gol (dovreste vederli o rivederli: in mezza rovesciata, in tuffo, di testa, su punizione, su rigore) Riva permette al Cagliari di vincere lo scudetto, di far sognare un’isola e di far convocare altri cinque calciatori della squadra sarda in azzurro (Albertosi, Cera, Domenghini, Boninsegna e Niccolai), quando permette alla Nazionale di vincere gli Europei e di arrivare seconda ai Mondiali in Messico, alle spalle del grande Brasile di Pelè, i grandi club sono disposti a scucire qualsiasi cifra pur di accaparrarselo.
Memorabili le offerte miliardarie dell’avvocato Agnelli per fargli vestire la maglia bianconera. A-Cagliari-sto-bene-Mi-accontento- di-quello-che-guadagno. Una corte spietata che dura diversi anni, alla quale Riva non cede. E’ questa coerenza spinta all’amore eterno che lo portano a pagare il prezzo di non vincere come avrebbe vinto altrove, a fare di questo campione una leggenda.
Eppure Riva continua a restare il ragazzo semplice di sempre. Simpatico, umano e di poche parole, quando in trasferta i tifosi di casa intonano cori come “banditi banditi banditi” ci resta male, ma quando intonano “pastori pastori pastori” è musica per le sue orecchie: lui si sente davvero un pastore, non dimentica le sue origini contadine e risponde a suon di gol, come il suo grande amico Fabrizio De André, anche lui del “Continente” che sceglie la Sardegna come Patria adottiva, risponde a suon di note meravigliose.
Rombo di Tuono non ha fatto sognare solo quella Terra, ma l’Italia povera-ma-bella di quegli anni, che lo ha visto come un simbolo quando lui ha gestito senza pianti, senza lamenti e senza retorica tre terribili infortuni che avrebbero stroncato chiunque, ma non un eroe che ha lasciato il segno.
Luciano Mirone
È STATO IL MIO GRANDE AMORE E RIMPIANTO CARO LUCIANO.IL GRANDE AVVOCATO NON È MAI RIUSCITO A FARCI SOGNARE,CARO LUCIANO.ERANO I NOSTRI ANNI.LII E PIETRO ALLA JUVE SAREBBERO STATI IL MASSIMO.E’ RIMASTA L’AMMIRAZIONE X UNA PERSONA ED UN CAMPIONE UNICO.CIAO AMICO MIO.TOTO’