“Libertà di scegliere la Bellezza”. Massima condivisibile questa riportata sulla copertina (come leitmotiv) del libretto del dittico “La Lupa” e “Il berretto a sonagli”, rispettivamente (come avrebbe desiderato la Letteratura) di Verga e di Pirandello, proposti dal Teatro Massimo “Bellini” di Catania dal 2 al 9 marzo 2024. Ma teatro è templum, recinto sacro, luogo improfanabile; o, almeno, concedendolo all’evoluzione dei tempi e dell’Arte, libertà vincolata dalle origini celesti non però necessariamente inviolabili se circoscritte al recinto.
Dico questo per l’operazione di stesura narrativa impropria, fatta al suddetto dittico, in particolar modo alla “Lupa”, alla quale dell’eccelso Giovanni è rimasto soltanto il titolo. Parere diverso per “Il berretto” pirandelliano, dove almeno un’orma è rimasta anche se letterariamente mutilata e violata; per cui, pur restando tutti “uomini d’onore”, mi ritrovo a parlarne “al funerale” triste della “Lupa” con di fronte il paradosso del quale non si è affatto curato il regista Davide Livermore, il quale addirittura ne ha rincarato la dose nell’epilogo di Giuseppe Di Leva, stravolgendolo in peggio, facendo dare dalla Lupa una pistola a Nanni che se la scarica nella tempia destra. Seguono, a corona del tragico quadretto, scarpe rosse disposte, come piena liceità, dalla fedifraga suocera sulla ribalta. Eppure il pubblico, che ha avuto occhi per vedere, ha applaudito compiaciuto.
Ma, librettista Di Leva e musicista Tutino, bastava un altro titolo per non uscirne ammaccati, se non proprio letterariamente e linguisticamente (qualche congiuntivo trascurato) almeno moralmente.
Quante operazioni di riscrittura di opere sono state fatte con e senza lo stesso titolo; da Virgilio a Dante, passando, a scendere e a salire, per una pleiade di autori più o meno famosi. Ci sono però contesti e contesti. Possiamo immaginare Arthur Laurents, Stephen Sondheim e Leonard Bernstein che titolino “Romeo e Giulietta” il loro capolavoro mondiale anziché “West Side Story”?
Del “Berretto a sonagli”, libretto di Fabio Ceresa, dicevo, rimane soltanto l’orma che il regista esalta come prerogativa di chi conosce «profondamente il linguaggio dell’opera» perché ne avvantaggerebbe «lo scavo psicologico dei personaggi affidato alla musica» che innalzerebbe il teatro a «denuncia». Non mi pare ci sia nella pièce lirica codesto assunto. Vedo soltanto anime dimezzate ed omologate all’accettazione passiva della vita per difendere un arrivo e/o una posizione sociali o, peggio ancora, un privilegio, magari per vizi da mascherare; e poi quel Ciampa, divenuto a capo di chissà quale cupola mafiosa, atta a tenere tutte le animelle di contorno legate a sé pur di non scoperchiare la tresca fra la giovane bella moglie e il marito della signora Fiorica. Ma guarda che fior di mafioso birbone!
C’è comunque il salto: Ciampa da pupo viene promosso a puparo con tanto di patente mafiosa, che accetta financo le corna. Nel vortice del gioco di potere mafioso viene risucchiato anche il delegato Spanò; l’unica a starne fuori è Beatrice Fiorica che si ribella, denuncia e chiede giustizia. Ma quest’ultima non arriva; per cui ci è sembrato di vedere una Sicilia spuntata che ama il sonno.
Ma codesta Trinacria è quella raccontata, ma con ben altra tempra narrativa, da Tomasi di Lampedusa per bocca di don Fabrizio Salina. Insomma viene fuori una “corda civile” che implora lo status quo: Fifì, Assunta, Spanò e Fana (urlando disordinatamente, tra l’ira e le lacrime) E’ pazza! Pazza! Pazza! (Beatrice raggiunge il braccio dell’appuntato Logatto e viene scortata fuori dalle tre guardie, seguita dalle grida dei presenti. Ciampa si butta a sedere su una seggiola, scoppiando in un’orribile risata di rabbia, di selvaggio piacere e di disperazione).
Grazie a Dio la scrittura musicale di Marco Tutino ne è uscita non corrotta; ha coperto i burroni narrativi e sollevato l’ascoltatore in pregevoli atmosfere sonore anche quando sono scivolate nella musica leggera col jazz, col rock o con “Nun è peccato” di Peppino di Capri nel caso della “Lupa”, ambientata negli anni del boom economico. D’altronde la sperimentazione e l’eclettismo musicali di Tutino sono riconosciuti ed apprezzati in tutto il mondo. D’accordo con Paolo Forlani che bonifica gli «eventuali imprestiti da opere del passato» del maestro di Milano, trattandosi «casomai di assimilazione e di riproposizione aggiornata di moduli già assodati nella tradizione dell’opera ottocentesca e della prima metà del Novecento» e cita la morte di Puccini (1924) come data “spartiacque” (Come suona “Il berretto a sonagli”?, libretto di sala del Teatro Massimo “Bellini” di Catania, 2024).
Accattivanti le scenografie di entrambe le opere; suggestivo il digitale. Avrei risparmiato però i giochi rossi nel “Berretto a sonagli” per non sciupare il simbolismo delle nuvole di sangue che nella “Lupa” annunciavano la tragedia. Comunque onore alla fantasia degli scenografi; in particolare per il nostalgico Natale che ha fatto sognare coi suoi fiocchi di neve che scendevano su una strada ferrata e sul tram che la ripercorreva.
Onore poi a tutti gli interpreti con palma, anche per i doppi ruoli, a Nino Surguladze (La Lupa e Assunta La Bella), Sergio Escobar (Nanni e Fifì La Bella) e Irina Longu (Beatrice Fiorica e Mara); Di rilievo anche le interpretazioni di Alberto Gazale nonostante l’ingrato ruolo di interpretare Ciampa e di Rocco Cavalluzzi (Spanò).
Onore eccelso infine alla magica bacchetta del maestro Fabrizio Maria Carminati.
Tutto sommato trarrem gli auspici… Il Teatro Massimo “Bellini” di Catania, infatti, sotto la sovrintendenza del maestro Giovanni Cultrera di Montesano, è diventato uno dei migliori fiori del Teatro operistico italiano.
Era [però] alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna […]
Pino Pesce
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