Ahmed sta al centro del gruppo e con semplici parole in italiano mi chiede se ho qualche lavoro da fargli fare. È da circa venti giorni che lui e gli altri ragazzi non lavorano. Rimangono a vivere nella baraccopoli di Ciappe Bianche perché sono rimasti senza soldi, nemmeno quelli per andare via da Paternò (Catania). La loro preoccupazione non è per il cibo o per le loro precarie condizioni di vita, ma perché non riescono a mandare più nulla alle loro famiglie a casa, in Marocco.
Sono in totale una ventina di ragazzi a vivere in questa metà di giugno in quel budello di lamiere, materassi e tavole di fortuna che formano la baraccopoli di Ciappe Bianche. La cosa che mi sorprende è il loro sorriso, la loro dignità di uomini e di lavoratori. E la voglia di parlare.
Gli chiedo come è andata la stagione agrumicola e se sono stati tutti pagati per il lavoro che hanno fatto in campagna. Mi risponde che alcuni non sono stati pagati per ciò che avevano concordato e che la persona che avrebbe dovuto farlo, un italiano, si è dileguata. Non risponde più al telefono, né si vede più in giro. A qualcuno di loro deve quasi duecento euro.
Da quattro mesi, da quando è stato assassinato Mohamed Mouna, vittima del proprio caporale, a Paternò si è riaccesa la cosiddetta “emergenza di contrada Ciappe Bianche” e della conseguente presenza nel territorio di lavoratori stranieri stagionali.
Certo, utilizzare ostinatamente il termine “emergenza” per un fatto che si verifica regolarmente ogni anno, assume un contorno velatamente ipocrita. Basterebbe infatti procedere ad un’analisi dei dati numerici relativi alla presenza di cittadini stranieri per capire come dal 2021 ad oggi sia triplicata rispetto al triennio precedente e non riguarda solo il periodo della raccolta agrumicola del trimestre gennaio-marzo, ma riguarda tutti i mesi dell’anno.
Questo è un chiaro segnale di come stia cambiando lo sfruttamento criminale di questi lavoratori nel territorio e di come il fenomeno non sia ormai né occasionale e né temporaneo, ma sia strutturale e complesso. L’utilizzo, dunque, di un approccio emergenziale, anche concettualmente, palesa l’incapacità politica e istituzionale di governare i flussi migratori dei lavoratori e di fronteggiare la gestione criminale del lavoro.
Dall’omicidio di Mohamed Mouna datato 4 febbraio, infatti, abbiamo assistito ad un valzer politico e istituzionale tanto desolante quanto inconcludente. Il Sindaco Naso ha emesso un’ordinanza di sgombero della baraccopoli, ancora oggi inattuata, senza curarsi minimamente del destino dei lavoratori presenti nel sito. L’effetto? Uno stato di agitazione degli stranieri che, connesso alla mancanza di disponibilità di unità abitative, ha finito col creare tensioni e disordini in città sedati da una operazione di controllo del territorio per ordine prefettizio.
All’ordinanza sono seguiti ben due tavoli tecnici in prefettura e un consiglio comunale straordinario, cui hanno partecipato in via eccezionale il Presidente dell’Assemblea regionale siciliana e gli onorevoli paternesi, ma nel quale il focus del problema è sembrato più essere l’uso politico e strumentale della vicenda contro Naso che il tentativo di metter su uno straccio di proposta concreta e risolutiva.
La scorsa settimana, dopo mesi di silenzio assoluto, si è avviata quella che si potrebbe definire una vera e propria escalation mediatica contro la presenza di stranieri in città sul terreno propagandistico più congeniale alla destra, quella della sicurezza e dell’ordine pubblico. Passaggi televisivi, interrogazioni consiliari, articoli su riviste, incentratI sulla percezione del pericolo che i cittadini paternesi avvertirebbero alla presenza dei cittadini stranieri che, andrebbe ribadito, in estate si riduce a numeri residuali.
Il fatto appare grottesco se ci si mette davanti all’idea di vivere in un territorio nel quale convivono svariati clan mafiosi molto attivi che gestiscono armi e droga, nel quale avvengono svariate rapine e furti condotti da nostri connazionali e, soprattutto, nel quale il comune rischia lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Tanto per dire.
Con questo non vogliamo sottovalutare la percezione di insicurezza e affermare che non esista una questione di ordine pubblico in relazione alla presenza di cittadini stranieri. Si afferma soltanto che la connessione avanzata in modo surrettizio tra fenomeno migratorio e ordine pubblico, portata avanti dalla destra spesso con argomentazioni xenofobe, andrebbe letta in una prospettiva totalmente rovesciata.
Questi cittadini andrebbero visti per ciò che sono: ragazzi che fuggono da condizione di miseria alla ricerca di una vita dignitosa per sé e per i propri cari (e non per bivaccare nelle “ordinate e pulite” piazze paternesi) e che, una volta qui, finiscono per cadere nella rete di certi imprenditori senza scrupoli (senza generalizzare) che li sfruttano per raccogliere arance che finiscono poi nelle nostre tavole. I lavoratori stranieri stagionali e quelli italiani sono, dunque, le principali vittime di un sistema mafioso di sfruttamento del lavoro che mette in pericolo la sicurezza collettiva di tutta la comunità.
Se si riuscisse a focalizzare questo punto come elemento centrale del problema, sarebbe già delineata quella che è la strategia più efficace da perseguire, ossia smantellare il sistema criminale del caporalato attraverso un’accoglienza strutturata e organizzata, che restituisca dignità, protezione sociale e assistenza primaria a tutti i lavoratori, italiani e stranieri. Con l’effetto dirompente che, passando dal lavoro nero a quello regolare, a beneficiarne sarebbero tutti i braccianti, stranieri e italiani, dato che sparirebbe finalmente il gioco al ribasso e verrebbe meno la ricattabilità dei lavoratori. In sostanza, più dignità sociale e diritti per tutti, più sicurezza per l’intera collettività.
Ci sono svariati modelli, anche molto vicini a noi, in cui si è riusciti a costruire un piano strutturale e pluriennale che prevede alloggi dignitosi, servizi essenziali di assistenza sanitaria e legale. Questi piani sono stati accompagnati dalla promozione di protocolli d’intesa tra istituzioni, parti sociali e terzo settore per una lotta comune al fenomeno del caporalato. Esistono diversi programmi europei e nazionali che prevedono finanziamenti, anche preferenziali, per percorsi di questo tipo.
Eppure il comune di Paternò fino ad oggi si è rifiutato di adottare una prospettiva di questo tipo in virtù di quella malsana e strampalata idea secondo la quale se concedi agli stranieri un alloggio e una vita dignitosa, questi decidono di trasferirsi stabilmente qui con le loro famiglie. E magari risolviamo senza volerlo il problema enorme del deficit demografico. Non sia mai.
Andrea Maione
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