Ci sono voluti sessantacinque anni per rompere l’ultimo strato di menzogna che riguarda la morte di un giusto. Ed anche se per la magistratura italiana Cosimo Cristina è un “suicida” (ma senza prove), la lezione di verità data l’altra sera dagli organizzatori del “Termini Book Festival” (Giorgio Lupo in testa) è stata davvero grande.
Con una coraggiosa operazione lessicale, gli organizzatori della kermesse letteraria di Termini Imerese – quinta edizione, 22 autori, un prestigioso collegamento con Giallo Mondadori – hanno spazzato via il castello di bugie che la magistratura e la chiesa locale, sessantacinque anni fa, avevano messo su, e hanno intitolato la rassegna a “Cosimo Cristina, giornalista ‘ucciso’ dalla mafia” (testuale).
Una lezione di illuminismo che parte dai fatti e si traduce con le parole. Non più il concetto prudente di “morte” del giovane giornalista trovato esanime sui binari della ferrovia il 5 maggio 1960, e neanche quello del cronista “suicidato” da Cosa nostra per le sue terrificanti inchieste sui boss e sui Colletti bianchi di questa cittadina a pochi chilometri da Palermo.
Adesso, dopo sessantacinque anni, è stato definitivamente demolito il muro delle sovrastrutture lessicali, ed è stata ricostruita una verità che parte innanzitutto dalle parole. “Assassinio”, senza fronzoli. Una rivoluzione a trecentosessanta gradi che soltanto la vera cultura – quella che mette la verità e la conoscenza al centro di tutto – è in grado di attuare, specie se pensiamo all’età giovanile degli organizzatori e degli spettatori di questa rassegna letteraria.
Chi pensa che ci siano forzature in questa intitolazione si sbaglia: solo il rispetto dei fatti e di quelle poche istituzioni – a cominciare dalla polizia del vice questore di Palermo, Angelo Mangano, figura leggendaria legata anche alla cattura di Luciano Liggio – che allora indagarono seriamente su quello strano cadavere pieno di lividi adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Messina, all’interno della galleria di contrada Fossola, sotto il belvedere di Termini.
Nessuna forzatura. La polizia fece semplicemente quello che i magistrati si erano rifiutati di fare: interrogare i testimoni (specie i boss e qualche pentito ante litteram) e delineare il contesto politico-mafioso del tempo. Quel giovane cronista pieno di entusiasmo che girava in bicicletta e indossava il papillon, il doppiopetto grigio e si era fatto crescere baffetti e pizzetto, doveva morire: si era messo in un gioco più grande di lui.
E questo nella Termini Imerese del periodo a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta significava mettersi contro tutti. A cominciare dalla chiesa locale stradominata dall’arciprete della vicina Caccamo (centro che su Termini ha sempre esercitato una sorta di “supremazia mafiosa”) Teotista Panzeca, fratello del presidente della commissione provinciale di Cosa nostra Giuseppe Panzeca; dalla politica rappresentata dall’allora consigliere comunale Agostino Rubino (considerato da Mangano fra i mandanti del delitto); perfino dalla magistratura che in quegli anni archiviava regolarmente qualsiasi omicidio “ad opera di ignoti”.
L’unico a cercare di far luce su quella realtà, su cui Cosa nostra esercitava un potere non solo di vita e di morte, ma di felicità e di infelicità, di gioia e di dolore su ogni essere umano, era Cosimo Cristina, che aveva capito tutto: fino a quando ci sarà la mafia – era il suo ragionamento – la Sicilia non potrà mai trovare la strada per lo sviluppo. Un eretico.
Scriveva su L’Ora e perfino sul Corriere della Sera, ma ad un certo punto sentì l’esigenza di fondare un giornale tutto suo, Prospettive Siciliane, dove pubblicava le inchieste più clamorose sulla mafia e sui suoi rapporti più scabrosi con pezzi delle istituzioni. I boss (e non solo) andarono su tutte le furie e si riunirono attorno ad un tavolo. Oggetto della riunione: uccidere Cosimo Cristina. La decisione passò. Ma come ucciderlo? Con un colpo di lupara? No. Il personaggio era troppo eccellente e quindi si rischiava di interrompere la “pax termitana”, così sapientemente costruita fra una messa cantata ed un’archiviazione. Meglio un “suicidio”. Sì, certo, meglio ammazzarlo inscenando un suicidio.
Pochi giorni dopo, Cosimo fu licenziato dalla ditta nella quale lavorava, il 3 maggio sparì. Il 5 fu trovato cadavere. Nella sua tasca furono trovati due bigliettini in cui chiedeva “perdono” dell’”insano gesto” alla fidanzata e al suo migliore amico.
Per i magistrati quei due foglietti (non esaminati con una perizia calligrafica) costituirono la “prova inoppugnabile” del suicidio. Dunque niente autopsia per accertare scientificamente le cause della morte. Il giovane sull’orlo del fallimento per il licenziamento e per le tante querele subite, è andato incontro alla morte fronteggiando il locomotore in corsa. Questa la motivazione del “suicidio”.
Una versione che faceva acqua da tutte le parti, specie se non suffragata da prove e da riscontri scientifici. All’interno dei circoli, poche persone credettero alla tesi ufficiale.
Ecco allora che si mobilitarono le istituzioni più insospettabili. Se la magistratura parlava di suicidio, i funerali non si potevano celebrare: la chiesa lo vietava severamente (per i mafiosi no: per loro, nello stesso periodo, le esequie erano sontuose e solenni).
E allora Cosimo fu trasportato con un carro dal luogo del ritrovamento al camposanto, senza il pietoso passaggio religioso in chiesa. Un suicidio, al tempo, era una vergogna: la stessa di cui, duemila anni prima, si era macchiato il traditore di Cristo, quindi non scherziamo.
Sessantacinque anni per raccontare una storia come questa sono un’eternità, specie quando la tv è troppo impegnata a raccontare i delitti a sfondo passionale che in fondo sono una formidabile arma di distrazione di massa dai problemi che affliggono una Nazione. Eppure le storie come quella di Cosimo sono il sale della verità, ti aiutano a capire quanto è guasto questo Paese e quanto si fa poco per cercare di guarirlo.
Oltre il “muro” di Termini, Cosimo Cristina pochi lo hanno sentito nominare: anche perché, le “carte ufficiali” parlano di “suicidio”, e il suicidio non è il delitto eclatante, quindi perché contraddire la verità ufficiale? In fondo sono passati tutti questi anni e alla fine chissenefrega se si è ammazzato lui o se è stato ammazzato dai “poteri forti”, come è successo a Pasolini e ad Attilio Manca, i cui delitti sono stati derubricati rispettivamente a un regolamento di conti fra omosessuali e ad una overdose da eroina (praticamente un altro suicidio)?
E invece, a un certo punto, l’albero della storia, dopo la semina e la crescita, l’afa e le tempeste, le parole e i silenzi, riserva sempre un frutto, che darà altri semi che daranno altri alberi. Sì, la verità in fondo è come un albero.
Nella foto: la copertina di Antonio Bonanno della graphic novel con i testi di Luciano Mirone: “Cosimo Cristina, il ‘cronista ragazzino’ ucciso dalla mafia” (Round Robin), prefazione di Giancarlo Caselli
Luciano Mirone
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