L’abate Dominique-Georges-Frédéric Dufour De Pradt, nella sua opera storica edita nel 1815 col titolo Du Congrès de Vienne, contesta alle potenze partecipanti di aver considerato gli uomini come «delle greggi destinate a essere divise» fra un certo numero di pastori. L’autore intendeva così pareggiare il conto “contro coloro che si lamentano che i popoli divengano indocili e difficili da governare: bel miracolo, quando essi vedono che non sono tenuti in nessun conto da coloro che li governano!”
Qualcosa di simile scrive anche nella sua Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall’anno 1814 all’anno 1861, pubblicata a partire dal 1865 da Nicomede Bianchi, dove si legge che “calcolando gli uomini a guisa d’armenti, il principe di Metternich portava le perdite patite dall’Austria a 2.520.600 sudditi, e quindi ne chiedeva, a titolo di compensazione e in virtù di trattati, 2.687.067″.
Lo evidenziano, inoltre, altri storici contemporanei fra cui Armando Saitta, esponente di una certa critica storica democratica e progressista, valutando gli esiti dei lavori appunto del congresso di Vienna. La sua critica era diretta alle grandi potenze del tempo restaurate, vincitrici di Napoleone, che avevano rifatto la carta dell’Europa basandosi sul principio della legittimità e sui rapporti di forza emersi dopo Waterloo, quando invece bisognava ispirarsi a ben altri principi, primi tra tutti autodeterminazione dei popoli e nazionalità.
Il risultato che ne è derivato è concentrato in due secoli di sciagure, procurate dalle guerre patriottiche, dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, dall’implosione dei Balcani e dalla guerra civile, appunto, attuale in Ucraina tra popoli che hanno fatto parte della stessa unione politica e che si consideravano affratellati.
E adesso, a più di mille giorni dall’inizio dell’invasione russa, quella che era stata immaginata dagli aggressori come una passeggiata quasi indolore in territorio ucraino, si è rivelata un grosso bluff per l’accanita resistenza di un popolo libero e fiero che rivendica il diritto alla libertà e all’autodeterminazione. In ciò sostenuto dagli USA, dal Regno Unito e dall’Ue.
Il prezzo pagato da entrambi gli schieramenti è ormai altissimo in termini di uomini e mezzi. Talmente alto che è sempre più difficile immaginare che le parti avverse possano retrocedere dai loro obiettivi strategici senza prima aver messo in campo il peso di tutto il potenziale bellico ed economico di cui dispongono, compresa l’escalation nucleare.
Come si può infatti pensare seriamente alla rinuncia da parte di Putin del perseguimento degli obiettivi raggiunti e al ritiro dai territori occupati, senza aver prima conseguito il riconoscimento internazionale del fatto compiuto? E inoltre, come si può ipotizzare un cambio di rotta totale da parte dell’Ucraina e di chi continua a sostenere Volodymyr Zelensky, dimenticando i morti, le sciagure prodotte dalle devastazioni e i costi della ricostruzione?
Ma in realtà entrambe le parti si trovano impantanate sul campo, bramano la pace, ma non osano trattarla perché perderebbero la faccia dentro e fuori i rispettivi confini. Così l’Ucraina lancia i micidiali missili americani a lungo raggio Atacms e quelli modernissimi anglofrancesi Storm Shadow/Scalp contro obiettivi in territorio russo, in particolare nella regione di Kursk, dove Mosca prepara una nuova offensiva, schierando anche soldati e armi nordcoreani, e Putin risponde, per l’ennesima volta, alzando ancora il tiro, ricorrendo alla minaccia nucleare, senza la quale la guerra, da tempo, non avrebbe avuto probabilmente più storia, e lanciando a sua volta su Dnipro il nuovo terribile missile balistico Oreshnik.
E la causa, più che nell’uso di tutte le forze disponibili delle parti in campo prima di alzare
eventualmente bandiera bianca, sta principalmente nei fragili dissuasori internazionali che sono stati, fino a oggi, tiepidi, se non di parte, e comunque non abbastanza decisi nell’imporre la pace invece di finanziare la guerra.
Eppure, per porre fine alle ostilità ed evitare l’olocausto, insito nel rischio dell’allargamento del conflitto, sarebbe forse più saggio lavorare seriamente per la fine della guerra. Esiste, infatti, oggi una concreta via per pace alla condizione che il mondo la voglia realmente percorrere e imponga con convinzione il negoziato, finanziando la fine della guerra e mettendo in soffitta gli interessi reciproci che rappresentano il vero problema.
L’Occidente rinunci alla difesa a oltranza dell’Ucraina e al suo ingresso, per almeno un ventennio, nella Nato (che la Russia non accetterebbe mai!) e Putin abbandoni alcuni territori occupati. Una striscia di confine dovrebbe essere inoltre smilitarizzata e presidiata dai caschi blu.
Garanti nel negoziato dovrebbero essere, oltre alle stesse parti in causa, l’ONU e le altre potenze del G20 (ONU, USA, UE, Cina, RU, India, Giappone, Brasile, etc,) in una conferenza internazionale per la pace sulla martoriata Ucraina sulla base del principio della libera autodeterminazione dei popoli contesi.
Purtroppo, ancora, non se ne intravede la proposta politica. Né all’orizzonte lievita una migliore alternativa. Tuttavia, dalle steppe siberiane, dal deserto tibetano, dalle lontane terre del West qualcosa di nuovo sembra improvvisamente germogliare. Lo si deduce dall’asprezza della tensione e dall’escalation in atto con il reciproco ricorso all’arma missilistica che Putin ha però lanciato dopo aver avvisato gli USA. Il che vorrà pur dire qualcosa!
Tutti lo sanno, Ucraini e USA compresi, che lo Zar non tornerà mai indietro senza prima portare all’incasso una cospicua carta di credito. Il contrario, significherebbe la sua fine politica, cosa che il suo popolo, orientato a dovere dalla propaganda di regime, non sembra ancora gradire.
Viceversa, Zelensky non sembra poter contare sulla stessa determinazione del fronte dei suoi sostenitori internazionali e sulla capacità di resistenza a oltranza del suo popolo. Ma nessuno al mondo vorrebbe morire per Kiev, né a Pechino come a Washington, né a Mosca come a Parigi, a Roma, a Londra, ecc.
Paradossalmente, oggi, è proprio il terrore che qualcosa possa sfuggire al controllo che rende concreta la prospettiva di una seria trattativa.
Nella foto: un ospedale pediatrico in Ucraina dopo un bombardamento
Nino Pulvirenti
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