Condannato in primo grado a 6 anni e 6 mesi di reclusione, oltre ad una multa di 1600 Euro, l’imprenditore di Belpasso (Catania) Santo Tomasello, e i referenti di Cosa nostra Nicolò Squillaci detto “Mattiddina”, ritenuto appartenente alla famiglia mafiosa di Piano Tavola, frazione di Belpasso (8 anni e 4 mesi, più 1800 Euro di multa) e Mirko Pompeo Casesa della cosca di Mascalucia (6 anni e 6 mesi, più 1100 Euro di multa). Gli imputati, inoltre, sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione delle pena.
A emettere il verdetto, oggi, la seconda sezione penale del Tribunale di Catania, composta dai giudici Enza De Pasquale (presidente), Cristina Scalia e Anna Pappalardo.
La Corte ha condannato gli imputati anche al risarcimento del danno in favore delle parti civili – da liquidarsi in separata sede – riconoscendo 20 mila Euro quale provvisionale in favore dell’imprenditore di Belpasso Mario Cavallaro, oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili, che liquida in 3 mila 800 Euro. Per quanto riguarda la difesa dello stesso Cavallaro, la Corte ha stabilito 2 mila 560 Euro, e 1600 Euro alle altre parti civili da versare in favore dell’erario.
I giudici hanno dichiarato “non doversi procedere” nei confronti del collaboratore di giustizia Ignazio Barbagallo, dato che “il reato è estinto per intervenuta prescrizione”. Entro 90 giorni il deposito della motivazione della sentenza.
Il pubblico ministero Giuseppe Sturiale, come si ricorderà, aveva chiesto la condanna a 10 anni di reclusione e 2 mila Euro di multa per Tomasello, a 8 anni per Squillaci e Casesa (oltre a 1600 Euro), mentre per il pentito Ignazio Barbagallo la richiesta era stata di 2 anni e 2 mesi.
Una vicenda iniziata nel 2005 e scaturita in un processo innescato dall’imprenditore belpassese Mario Cavallaro (testimone di giustizia scortato 24 ore su 24, dopo un trasferimento disposto dallo Stato in una località segreta per proteggerne l’incolumità) che aveva denunciato il gruppo mafioso che lo aveva sottoposto “al pagamento del ‘pizzo’ e ad una continua serie di minacce e di vessazioni” che, secondo il pubblico ministero, avrebbero visto il coinvolgimento del suo socio di allora Santo Tomasello in un sistema di doppiogiochismi e di complicità mafiose.
Tutto comincia, secondo la ricostruzione dei magistrati, con il furto di un mezzo meccanico (una mini pala Caterpillar tipo Bob Cat) di proprietà della La. Ma. Cos., ditta intestata alla moglie di Cavallaro. A parere dei magistrati, il sodalizio faceva pervenire “le richieste estorsive attraverso le persone suddette”.
Per la restituzione del mezzo, Cavallaro avrebbe dovuto sborsare 20mila Euro affinché si “mettesse a posto” con la Famiglia mafiosa di Enna, ed altri 5mila per ottenere la stessa finalità con il gruppo degli Squillaci-Mattiddina.
A fare da trait d’union con le cosche sarebbe stato, secondo l’Autorità giudiziaria, proprio il socio di Cavallaro, Santo Tomasello, che avrebbe agito “attraverso minacce di conseguenze fisiche, sia facendo valere il proprio rapporto di amicizia con i suddetti affiliati, sia imponendo al Cavallaro di versargli per intero la somma, assicurando che avrebbe ‘sistemato’ la faccenda”.
Secondo i giudici, la vicenda non finisce qui. Tomasello e Barbagallo – in concorso con altri soggetti non identificati – un giorno avrebbero “bloccato con la propria auto la strada al Cavallaro”, dicendogli che “l’amicizia era finita” e che se non avesse corrisposto la somma stabilita, “lo avrebbero messo dentro i copertoni”, ricordando un macabro rituale della mafia belpassese ai tempi di Giuseppe Pulvirenti ‘U Mappassotu, che soleva bruciare i cadaveri delle sue vittime nelle gomme delle auto.
A parere del Gip ci sarebbe anche una terza fase, stavolta con un nuovo protagonista – Mirko Pompeo Casesa – e il solito Tomasello. Nuova la località: Mascalucia, alle porte di Catania. Vittima sempre Cavallaro che avrebbe dovuto scucire altri 19mila Euro “per mantenere la protezione degli amici di Mascalucia che gli avrebbero ‘perdonato’ le denunce che aveva sporto, intimandogli che da quel momento in poi ‘avvocati e guardie dovevano stare fuori dai loro discorsi”, costringendo l’imprenditore – che non aveva immediata disponibilità dell’importo – ad emettere un assegno a vista di 7mila 500 Euro.
Le somme, secondo i magistrati, successivamente, sarebbero state intascate da Squillaci “Mattiddina”, ma per una serie di situazioni legate agli equilibri interni, non sarebbero finite nelle casse “giuste”, che quella volta “dovevano essere” le casse ennesi.
Un “incidente diplomatico”, come lo definì la giornalista Laura Distefano su La Sicilia, di cui si sarebbero interessati addirittura i vertici di Cosa nostra etnea, a cominciare da Angelo Santapaola, Raimondo Maugeri ed Enzo Aiello, a capo dell’assetto economico del gruppo Santapaola-Ercolano.
Luciano Mirone
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