“Io sono il figlio di uno dei ragazzi del 1899, allora intesi come i ragazzi del ‘99”. Lo dice con orgoglio Orazio Sgroi di Santa Venerina (paesino alle pendici dell’Etna in provincia di Catania), che di anni ne ha sessantanove. “Quest’anno, il 4 novembre, ricorre il centenario della fine della Grande guerra, quella del ’15-’18”.
E’ un fiume in piena, Sgroi, mentre sfoglia l’album dei ricordi. Fa trapelare un’emozione palpabile. “Vede – dice – nella casa di mio padre erano sette figli maschi. Nel 1914 cominciò la Grande guerra, l’Italia entrò nel conflitto nel 1915. Cominciarono le battaglie. Il generale supremo delle truppe era Luigi Cadorna. Lui era un nobile con il titolo datogli dal re. Non proveniva dall’Accademia Militare, cioè dalla scuola delle strategie di guerra. I combattimenti si svolgevano a fasi alterne. Ma ad un certo punto, gli Austro-Ungarici aiutati dai Tedeschi sferrarono un potente attacco alle truppe italiane. Si contarono 650 mila soldati italiani morti sul campo. A questo punto, il generale Cadorna diede ordine di ritirata nel Friuli Venezia Giulia, a Caporetto”.
“Mi ha raccontato mio zio Alfio, fratello di mio padre, partito in guerra poco prima di lui, che, durante la ritirata, non c’era spazio per passare: caminàumu supra i morti, si camminava sui morti.
Dopo la disfatta di Caporetto, il governo italiano, di concerto con il re Vittorio Emanuele, prese la decisione di mettere da parte Cadorna e di assegnare il comando supremo delle truppe al generale Armando Diaz che proveniva dall’Accademia Militare.
Diaz dovette faticare non poco per farsi voler bene dai soldati. Andava dalle truppe per rincuorarle per la tremenda ritirata e li incoraggiava a combattere. Ma dopo tutte quelle perdite umane, mancavano uomini per combattere. Fu allora che si pensò di chiamare alle armi i ragazzi del ’99 che nel 1917 avevano appena diciassette anni.
“Il generale Diaz – racconta Orazio Sgroi – diede ordine agli ufficiali e ai sottufficiali di rincuorare quei ragazzi, anche perché, attraverso una strategia di attacco e di reazione militare, si percepì che l’Italia poteva vincere la guerra. Mio padre fu mandato in Trentino, al 278° reggimento della prima armata. Vi fu un innalzamento del livello di umore fra le truppe, anche perché i ragazzi portarono una ventata di fiducia e di forza che contagiò i soldati sopravvissuti alla disfatta di Caporetto”.
Gli occhi di Sgroi diventano un po’ lucidi: “La madre di mio padre era la seconda moglie di mio nonno ed insieme avevano avuto tre figli. Ma mio nonno, dalla prima moglie, che era morta in giovane età, aveva avuto altri cinque figli: quattro maschi e una femmina morta prematuramente di tifo. Mio padre Sebastiano era l’ultimo. Mia nonna, prima che partisse, gli attaccò sul petto l’abitino della Madonna del Carmelo ed ogni sera, a casa, pregava davanti all’immagine della Madonna affinché tutti i suoi sette figli tornassero a casa sani e salvi. Considerava come figli anche gli altri quattro del primo matrimonio del marito. Il piccolo lumino ad olio posto dinanzi all’immagine della Madonna non doveva spegnersi mai. Lei risparmiava l’olio, ne usava di meno nel mangiare, purché non mancasse mai dal lumicino”.
“Mio padre mi raccontava spesso che sua madre pregava sempre affinché tutti e sette i figli tornassero a casa. Li voleva tutti bene, anche quelli della prima moglie e li amava come se fossero tutti suoi. Le sue preghiere furono ascoltate e i ragazzi tornarono dalla guerra sani e salvi”.
“Mio padre conobbe Cesare Battisti quando fu preso prigioniero insieme a Fabio Filzi. I due furono processati dagli austro-ungarici e poi impiccati nel castello del Buon Consiglio a Trento”.
Cosa le raccontava suo padre della guerra? “Non mi disse mai – risponde Sgroi – se aveva ucciso qualcuno, ma mi raccontava che non ci si poteva rifiutare dall’andare all’attacco. I soldati che evitavano di combattere venivano uccisi a fucilate dai carabinieri del re. Una volta ci fu un forte bombardamento: molti ragazzi morirono. Mio padre sopravvisse, ma la sera, a causa del forte rumore dei colpi di mortaio, era stordito ed aveva perso l’orientamento e stentò a raggiungere le trincee. Quando riuscì ad arrivare a destinazione era sfinito. Aveva fame e trovò un po’ di riso. Ma era guasto e non riuscì a mangiarlo. Quel riso era il rancio portato alcuni giorni prima dagli alpini con i muli. Anche i muli erano considerati soldati: erano immatricolati e trasportavano i cannoni piccoli in montagna. Mio padre sfinito dalla fatica, col terrore ancora stampato negli occhi, dopo aver mangiato qualche galletta che aveva con sé, si addormentò di colpo. Sognò la Madonna che gli diceva: ‘Perché stasera non mi preghi?’. Si svegliò di soprassalto, pregò e subito dopo si riaddormentò e dormì l’intera notte in una grotta vicino la trincea”.
“Subito dopo la vittoria di Vittorio Veneto del 4 novembre 1918, mio padre rimase come ‘attendente’ del tenente, il generale Ugo Vinci, fino al congedo avvenuto il 14 dicembre 1920. L’attendente era colui che presentava coloro che volevano parlare col tenente generale”.
“Un giorno, prima del congedo, il tenente generale Vinci chiamò mio padre e gli disse: ‘Dato che sei stato un ottimo soldato e che hai rispettato tutti i comandi, ti ho fatto l’ordine per entrare nei carabinieri del re’. Ma mio padre senza esitazione gli rispose: ‘Grazie eccellenza, ma non posso accettare, mio padre ha un gregge con 5mila pecore e mi aspetta’. Congedatosi, rientrò in Sicilia dove continuò a fare il pastore”.
Rosalba Mazza
Una magnifica testimonianza di come il fiume della Storia si divide in miriadi di rivoli che toccano la vita di ognuno di noi. Mio nonno era invece un ragazzo del 900 e allora dovette conseguire, come tutti i suoi coetanei, la maturità un anno prima del previsto per potere partire per il fronte.Tornò dopo poco perchè la guerra nel frattempo era finita.