Mercoledì 16 gennaio 2019, matinèe teatrale al Teatro “la Fenice” di Biancavilla per alcuni Istituti Superiori della stessa cittadina etnea e di Paternò. In scena “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello con adattamento testuale, scenico e regia di Pino Pesce. Il cast è composto dall’attore professionista Mario Opinato, nei panni dell’Uomo dal fiore in bocca; da Gabriele Vitale in quelli dell’Avventore; da Valentina Signorelli che impersona l’Allegoria della vita e del tempo; da Alessandra Ricca che rappresenta l’Allegoria del trapasso. Al cast fa da preziosa chicca la voce fuori campo del grande attore palermitano Pino Caruso. Il lavoro caratterizzato da un registro espressivo multimediale si avvale di video a gettata continua realizzati dai video maker: Vincenza Mastroeni e Vincenzo Santonocito. Da sottolineare infine le suggestive e talvolta mistiche musiche di Elisa Russo che ha appositamente composto per questa pièce.
Nell’originale lavoro di adattamento, il regista Pesce, lascia sì integro il testo sia nella forma che nella struttura, ma lo arricchisce di un significato forte che va al di là della cupa visione nichilista dello scrittore di Girgenti rivestendo il dramma di una speranza che va al di là dell’effimero e che viene rappresentata attraverso il ritorno in vita dell’Uomo dal fiore in bocca. Nella chiusa la speranza dentro il mistero: «Così non è il caso di spiegarvi… io, Caro Signore, come tutto è un risveglio dal sonno e dal sogno… per voi che pensate di essere… per me, che, per voi, non dovrei più essere nella sostanza dell’esservi… Ma che invece vi sono, come vedete… Come?… non è dato saperlo né a voi né a me… né a nessun altro! Burattini, burattini!… burattini del nulla!!! Del nulla?! Non c’è un segreto filo che porta alla Verità Assoluta?!!».
Un malato di cancro, reso quanto mai vivo da Mario Opinato, grazie al talento e all’esperienza, che esprime il senso amaro di un imminente distacco, portando il pubblico negli anfratti più commoventi e travagliati dell’uomo consapevole della sua instabilità, narra il suo percorso esistenziale ad uno sconosciuto, un pacifico avventore, in un bar della stazione attraverso un dialogo che diventa piano piano un monologo, tentativo estrenuo di aggrapparsi a quella vita vista fino a prima della malattia con noncuranza e poi avvertita come volontà di indagare i più piccoli dettagli del senso della vita.
Se questo è l’intimo significato dell’opera originale, dove l’ineluttabile ha il sopravvento su tutto, nella visione del regista (che abbraccia spunti narrativi pirandelliani dal romanzo “Uno, nessuno, centomila”, da “Di sera, un geranio” e dal dramma “Lazzaro”) l’approdo drammatico, seppure intenso, si addolcisce, s’intride di speranza, in una dimensione nuova e singolare. Esiste, infatti, una possibilità che non sia la fine nella rivisitazione di Pesce, una rinascita che attutisce il senso dolente della solitudine di un uomo malato che muore «ogni attimo» in un palcoscenico inteso come “spazio mentale” di evocazione ed immaginazione.
Tra la vita e la morte, tra mistero e immaginazione dove si muovono l’allegoria della vita e del tempo e l’allegoria del trapasso in una danza di contesa che apre al finale di speranza. Quando tutto sembra perduto e la fine già arrivata la voce fuori campo dell’attore Pino Caruso narra il distacco dell’anima dal corpo e che «la vita è terra che vuole cielo solo per dare aria alla terra», materia e spirito che danno vita all’uomo. Ma «cosa c’è di più vero del mistero?» Qui lo stupore del nuovo incontro.
Gabriella Puglisi
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