Quando ero bambino venivo ogni estate a Belpasso. All’inizio degli anni Sessanta il paese – dal punto di vista urbanistico – era intatto rispetto a come lo avevano edificato i nostri Padri, dopo due eventi funesti che lo avevano distrutto, l’eruzione del 1669 e il terremoto di ventiquattro anni dopo (1693).
L’edificazione della nuova Belpasso – costruita agli albori del Settecento in altra località, l’attuale, rispetto ai siti precedenti – fu decisa in collina secondo i nuovi modelli barocchi, con case a pianterreno o a un piano, ubicate lungo una dorsale Sud-Nord posta “a schiena d’asino”, a metà strada tra l’Etna e la Piana di Catania. Una conformazione “stretta e lunga” con maglia a scacchiera di 50 metri per cinquanta, e con pendenze laterali, in modo da far defluire le eventuali lave ai margini del centro abitato delimitante con la campagna.
Era bella allora Belpasso. Di una bellezza fatta di balconi in pietra bianca, mascheroni e archi d’ingresso in pietra lavica, facciate in “coccio pesto”, archi a sesto acuto, volte affrescate, e poi cortili, cisterne, decorazioni in ferro battuto, profumi delicati di gelsomini.
Una bellezza semplice e divina, come se due anime – quella dell’uomo e quella di Dio – si fossero fuse in un’unica anima che per gli antichi era la chiave di tutto. Sì, perché quando un tempo si doveva edificare un nuovo comune si utilizzavano i migliori architetti, le migliori maestranze, i migliori materiali. Basta osservare le differenze fra i centri storici e le zone nuove di qualsiasi città italiana per comprendere la differenza fra un’anima fatta di genio, di sentimento e di dignità; e una globalizzazione fatta di palazzoni, di cinismo e di assoluta mancanza di senso del bello.
La bellezza del paese, a quell’epoca, si percepiva – o forse da bambino la percepivo in quel modo – anche dalla genuinità, dall’allegria e dalla semplicità della gente, malgrado le fatiche che attanagliavano il mondo contadino, e anche da quel linguaggio schietto e sanguigno di certe discussioni politiche, esplose in tutta la loro dirompenza negli anni Cinquanta (di cui si avvertì il refolo anche per un certo periodo successivo), nello scontro fra i clericali della Democrazia cristiana e gli anti clericali del movimento “Uniti per Belpasso” (‘aciddazzu) di cui l’ex sindaco Domenico Martinez, socialista e cattolico, fu leader, oltre che amministratore onesto e lungimirante. Non a caso, parlando di Prg, facciamo riferimento a Martinez (ora diremo perché), irriducibile antifascista, capace nel ’24, ancora laureando in giurisprudenza, di commemorare al Circolo operai Giacomo Matteotti – fatto uccidere da Mussolini per la sua integrità morale – davanti ad una folla “imponente”, secondo le cronache del tempo.
È quella “folla imponente”, quell’antifascismo, quel sindaco onesto e socialista, quella marea di gente che lo sosteneva, quel Circolo, a farci capire che tipo di valori ci fossero allora a Belpasso.
Se vogliamo comprendere il Dna di questo paese, dobbiamo partire da lì, da quel sodalizio nel periodo che va dall’Unità d’Italia ai primi decenni del Novecento, quando il Circolo d’’i Mastri fu la fucina del socialismo riformista di Giuseppe De Felice, deputato e grande sindaco di Catania; laboratorio della Banca Operaia, nata per combattere l‘usura (e non per allevarci il Malpassoto, come sarebbe successo oltre un secolo dopo); punto di riferimento etico contro le ingiustizie, per le quali il Circolo riuscì a mobilitare l’intero paese anche contro l’Amministrazione comunale.
Fu dopo Martinez – dimessosi negli anni Sessanta per manifesta incompatibilità con il modo “nuovo” di intendere la politica delle giovani generazioni – che cominciò la decadenza di Belpasso, anche se il paese beneficiò per diverso tempo dell’onda lunga del “sindaco galantuomo”. Il ritiro di Martinez coincise con lo sventramento della via Roma, di piazza Umberto, di piazza Duomo e di via Vittorio Emanuele.
Tornare a Belpasso d’estate voleva dire assistere al disfacimento dell’anima, alla demolizione di bellissimi edifici antichi e all’edificazione di orrendi palazzi in cemento. A uno a uno furono abbattute testimonianze straordinarie di architettura barocca come Villa Romeo, Palazzo Bellecci, Villa Mirone e tanti altri manufatti di minor pregio che facevano “tessuto”, nel senso che contribuivano a mantenere l’identità del paese (l’anima).
Eravamo in pieno boom economico e molti volevano la casa “nuova”, anche in centro storico, anche accanto al magnifico scenario della Matrice. La politica – invece di investire sulla bellezza, sull’identità e sul restauro, come in altri comuni che hanno puntato sul turismo – lasciò fare. Del resto la casa, secondo un recente sondaggio, è il bene più prezioso degli italiani, la roba una filosofia di vita che mentre ai tempi di Verga era privata, negli anni del boom diventò pubblica, senza un briciolo di regola che ne disciplinasse le storture.
Un concetto compreso perfettamente dalla successiva generazione di “giovani” rampanti che nel frattempo – dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta – hanno amministrato Belpasso utilizzando il potere clientelare per monopolizzare il sacrosanto bisogno di casa.
È stato quello il momento della mutazione antropologica dei belpassesi. Il cemento da un lato fu utilizzato per costruire selvaggiamente, dall’altro per plasmare molte coscienze, per incattivirle anche, contro quei pochi che si opponevano a questa nèmesi epocale che ha portato mastri e contadini a cambiare per sempre la loro vocazione secolare o a svendere i loro terreni agricoli, mentre nel Palazzo c’era chi si era assiso comodamente in poltrona per gestire il Piano regolatore.
Fu traumatico assistere a tutto questo quando nell’85 mi trasferii definitivamente a Belpasso. La lotta in tutti questi anni, è stata impari, specie in un contesto in cui le coscienze – nell’arco di oltre un secolo – si sono atrofizzate o corrotte. Ma era una lotta che andava fatta, e che va fatta. Era (ed è) un dovere morale. Se non è stata capita o si è fatto finta di non capirla, pazienza, non è un problema di chi ha lottato.
15^ Puntata. Continua
Caro Luciano, parli di Belpasso, ma, quello che dici in queste righe l’ho letto come come se descrivesse il mio identico stato d’animo nei riguardi del “mutamento” vissuto dalla mia Catania…Unica differenza: che noi in Catania siamo stati “più precoci”; infatti, per quanto posso ricordare, il “mutamento” in Catania, cioè la cementificazione, cominciò attorno al 1960……Mario Strano