Un parco giochi per far rivivere, attraverso la felicità di tanti bambini, il piccolo Giuseppe Di Matteo, vittima innocente di una barbarie senza limiti, che negli anni Novanta portò il boss Giovanni Brusca, ‘u verru, il maiale, a soffocarlo e a scioglierlo nell’acido , dopo sofferenze indicibili che il bimbo visse durante il sequestro durato due anni.
Perché poi? Perché Giuseppe aveva la “colpa” di essere il figlio di un pentito – Santino Di Matteo – che stava rivelando particolari esplosivi sulle “menti raffinatissime” che stavano dietro alla strage di Capaci e all’omicidio dell’esattore di Salemi, Ignazio Salvo (commesso da Brusca, condannato all’ergastolo), collegato con l’ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti.
A proporlo al suo Comune, Calatabiano (Catania), è una donna, Ida Bonfiglio, che con la sensibilità che solo una madre può esprimere, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera struggente al sindaco della sua città, Giuseppe Intelisano, e per conoscenza al sen. Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per intitolare lo spazio verde “a questo bambino dolcissimo ed innocente, appassionato di equitazione, che nulla sapeva del mondo che lo circondava e che lo avrebbe divorato”.
E nella missiva spiega perché: “Ogni ragazzina e ragazzino, ogni piccolo Cittadino deve conoscere il nome di Giuseppe Di Matteo; deve saperla a memoria la sua storia. Noi ‘grandi’ abbiamo l’obbligo morale di fare in modo che ciò avvenga”, “la memoria è tutto”.
La memoria tramandata ai bambini che non sanno, e che è giusto che sappiano. La memoria che si propone di far conoscere a tutti “ciò che di inaccettabile ed atroce avviene, affinché non avvenga mai più”, affinché il sacrificio del piccolo Giuseppe venga “ricordato in eterno”, “scolpito nella pietra e nella memoria collettiva”.
“Ogni ragazzina e ragazzino – prosegue la lettera – deve sapere che la mafia non ha onore”, perché “non c’è niente di più vigliacco di rapire e di tenere in catene, uccidere e poi sciogliere nell’acido, un povero bambino innocente”.
“Il suo assassino non ha neanche avuto il coraggio di guardarlo in faccia mentre lo strangolava”. Ecco perché “i giovani devono sapere”.
I retroscena sulla morte di Giuseppe Di Matteo, confessati successivamente dai collaboratori di giustizia, sono raccapriccianti, dimostrano come i mafiosi abbiano smarrito qualsiasi parvenza di bene e di male.
Stringe davvero il cuore pensare al nomignolo col quale i boss avevano definito il piccolo Giuseppe: ’u canuzzu, per lo stato in cui era stato ridotto. ‘U canuzzu, termine onomatopeico, che ci porta ad immaginare un cucciolo indifeso, scheletrico, che chiede aiuto perché, in fondo, si fida ancora dei suoi carnefici.
Gli stessi carnefici che erano andati al maneggio per rapirlo, presentandosi sotto le mentite spoglie di agenti della Dia. E lui, Giuseppe, felice come non mai, che finalmente avrebbe raggiunto il genitore, pentitosi da poco e nascosto dalla polizia in una località segreta: “Papà, papà amore mio”.
“Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi”. Questo confesserà anni dopo Gaspare Spatuzza ai magistrati.
Inimmaginabili nella loro perversione i retroscena raccontati da Vincenzo Chiodo, uomo di fiducia di Brusca e Bararella, che portarono all’uccisione del piccolo Di Matteo: “Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo”.
Ma non è tutto: “Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra”.
E poi: “Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente”.
Questa la fase dello strangolamento. Ma prima, in quei settecentosettantaquattro giorni di prigionia, “il bambino… non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle…”.
Molle… A volte i mafiosi, nella loro ignoranza, nella loro crudeltà, nella loro barbarie, usano dei termini lapidari che spiegano tutto: molle. Come se Giuseppe fosse morto dentro. Eppure “non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…”. Tenero, burro… Capite cos’è la mafia? Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, dovrebbe conoscere questa storia, e leggere queste parole, canuzzu, molle, tenero, burro.
“Il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino”.
Dopodiché è stato spogliato: “Ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto”.
E poi? Poi il baratro dell’umanità, peggio del lager nazista: “Abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro”.
E poi? “Poi siamo andati tutti a dormire”. A dormire…
Un racconto che lascia sgomenti, e che – scusate la retorica – fa venire solo voglia di piangere in silenzio. “Il nome di Giuseppe Di Matteo – scrive Ida Bonfiglio – dovrebbe essere presente in ogni paese e città. Ogni ragazzino dovrebbe almeno per una volta nella sua vita pensare a Lui mentre gioca felice e libero, col vento nei capelli ed il sole sul viso”. Le parole di una madre.
Luciano Mirone
Lascia un commento...