“Diffamarono Bianco, in 2 a giudizio”. Ecco il titolo che il quotidiano “La Sicilia” di ieri ha riportato in taglio alto nella cronaca di Catania. E così quei lettori del capoluogo etneo e della Sicilia orientale – dove è il giornale a maggiore diffusione – che magari si fermano al titolo, al sopra titolo (“Gip dispone imputazione coatta”), o al massimo alle prime tre righe, si saranno fatti l’idea che le due persone rinviate a giudizio hanno davvero “diffamato” l’ex sindaco di Catania. Stiamo parlando di Matteo Iannitti, esponente del movimento di sinistra Catania Bene Comune, accusato di aver diffuso il comunicato “incriminato”, e di Marco Benanti, direttore del giornale online Le Iene sicule, che lo ha pubblicato.
Qualcuno dovrebbe spiegarci quale sentenza definitiva ha sancito che Bianco sia stato diffamato, se, come si legge nello stesso titolo, Iannitti e Benanti sono stati solamente rinviati a giudizio. Qualcuno dovrebbe spiegarci se il principio di innocenza, fino a sentenza passata in giudicato, vale solo per i potenti e non anche per i comuni mortali.
Passiamo all’articolo. Che si sofferma sul comunicato di Catania Bene Comune, ripreso da Benanti, dove si parla della “ricostruzione di una telefonata tra l’allora sindaco di Catania Enzo Bianco e l’editore Mario Ciancio (lo stesso editore del giornale che pubblica l’ articolo in questione, ndr.)”.
Dopodiché leggiamo che la telefonata riguardava il voto espresso nel Consiglio comunale di Catania in merito all’approvazione “di una variante al Pua” (Piano urbanistico attuativo).
In quella telefonata – il particolare viene dimenticato dal pezzo, ma è bene ricordarlo – Enzo Bianco, che allora non era sindaco di Catania (come viene scritto su La Sicilia), ma parlamentare nazionale e in quel momento candidato alle elezioni come sindaco, rassicurò Ciancio sul voto in aula del provvedimento sul Pua (“Come vedi mantengo…”). Ciancio, dal canto suo, prese l’impegno di mandare le telecamere delle proprie emittenti in occasione dell’apertura della campagna elettorale. Insomma, un rapporto di do ut des di cui su La Sicilia non c’è traccia.
Così come non c’è traccia del fatto che, in base alle indagini svolte, l’editore risultava proprietario dei terreni sui quali, grazie a quella variante, si sarebbe potuta scaricare una colossale colata di cemento non proprio in linea con il modello di sviluppo sostenibile che Bianco ha sempre sbandierato. Già questo dovrebbe costituire oggetto di una discussione sulla netta separazione dei ruoli fra politica (specie di sinistra) e imprenditoria. Ma questa è un’altra storia. Andiamo avanti.
E però si dà il caso che Mario Ciancio, al momento della telefonata con Bianco, fosse già sotto la lente d’ingrandimento della magistratura in merito ai suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Diciamo “presunti” malgrado la “pericolosità sociale” dell’editore, di cui parlano di recente i magistrati di Catania, e la confisca tramite sequestro (150 milioni) di buona parte del suo immenso patrimonio che, sempre secondo i magistrati, sarebbe stato accumulato attraverso una serie di affari portati avanti con il super boss catanese Nitto Santapaola – mandante del delitto del giornalista Giuseppe Fava – fin dagli anni Settanta.
E questo diciamo che va ben oltre il problema della cementificazione della Playa. In ogni caso, fa notare il Giudice per le indagini preliminari, Iannitti e Benanti, nella loro nota, hanno diffuso una notizia “non riscontrata, ossia la contiguità di Bianco con ambienti mafiosi” .
Senza volere entrare nel merito del provvedimento del Gip, che ha rigettato la richiesta di archiviazione disposta dalla Procura (particolare ignorato dal sopra titolo, che, sempre per i più superficiali, avrebbe potuto completare la notizia dell’imputazione coatta), colpisce anche un altro fatto: nell’articolo viene data la parola solo all’ex sindaco (“Non posso subire attacchi e falsità quando riguardano uno dei punti fermi di tutta la mia vita pubblica e privata: la lotta alla mafia e l’affermazione della legalità”), con Iannitti e Benanti che non solo vengono ignorati, ma vengono attaccati senza che abbiano la possibilità di dire la loro.
Ci saremmo aspettati una replica degli interessati, o magari – come si fa sempre quando la controparte, contattata dal giornalista, preferisce non rilasciare dichiarazioni – la giustificazione della mancanza di par condicio (abbiamo-sentito-il-tizio-che-ha-ritenuto-di-non-dire-nulla-sulla-vicenda). Invece niente. I “2” sono stati bollati come “diffamatori” dal titolo, per giunta senza il racconto di certi retroscena che il giornale avrebbe avuto il dovere di fare.
Perché improvvisamente , quando in una vicenda è coinvolto Mario Ciancio, spariscono i principi del garantismo e del pluralismo dell’informazione? Avremmo voluto porre queste domande all’autore del pezzo, magari avendo il piacere di citarlo con nome e cognome. Ma non è stato possibile: l’articolo è anonimo.
Luciano Mirone
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