Era pericoloso stare in mezzo alla strada a chiedere agli automobilisti pochi spiccioli per aver lavato i vetri delle loro auto, durante la breve sosta al semaforo rosso. Ai loro occhi doveva sembrare un povero idiota perché alle imprecazioni, l’uomo opponeva il suo sguardo spento e assente. Indossava degli abiti logori e calzava delle vecchie scarpe sporche di fango, zoppicava vistosamente trascinando tra l’indifferenza della città la sua misera vita.
Anche questa giornata volgeva al termine, tra poco sarebbe passato il solito furgoncino scassato a prenderlo insieme agli altri, l’autista gli avrebbe chiesto l’incasso del giorno in cambio di uno squallido posto dove dormire e due miseri pasti al giorno.
Sotto un tetto di lamiera arrugginita e pareti di legno ammuffito, l’uomo mangiava della pasta al pomodoro fredda che oltre ad essere appiccicosa non aveva nessun sapore. Finalmente tra poco sarebbe
andato a dormire per poi l’indomani mattina ricominciare quel calvario che difficilmente poteva definirsi vita.
Era tutto il suo mondo e tutto quello che aveva. Non ricordava niente di sé, ignorava anche perché si trovasse proprio lì e da tempo aveva anche smesso di chiederselo.
A volte prima che arrivasse l’autista, gli altri scappavano con l’incasso del giorno ma lui era rimasto sempre fedele e ubbidiente come un cane legato alla catena. Sentiva una sottile riconoscenza verso i suoi aguzzini. Aveva provato anche a somigliargli nel loro modo spavaldo e arrogante di atteggiarsi ma senza mai esserci riuscito. Sapeva, nel profondo della sua anima, che solo la sua vera identità poteva spezzare quella catena invisibile che lo legava a quel luogo e a quella gente.
Viveva in un campo di zingari alla periferia a sud della città tra pozzanghere di fango e baracche di legno piantate sulla terra come croci. Tronchi di alberi abbattuti, tagliati, inchiodati e avvolti da lamiere arrugginite, come sudari di martiri agonizzanti.
L’abbaiare dei cani chiusi dentro vecchie e sporche gabbie, si mischiava alle urla dei bambini che giocavano a tirare pietre a quelle povere bestie affamate. Le scommesse sui combattimenti tra
cani, era per quella gente occasione di facili guadagni e crudele divertimento. I capi del campo abitavano su una piccola collina, distanti da quell’inferno, stavano dentro grandi roulotte agganciate a lussuose automobili così pulite e luccicanti, da sembrare appena uscite dalle vetrine degli autosaloni.
Aveva perso la memoria e con essa anche la sua storia e la sua vita vera. Non sapeva più il suo nome e da dove venisse, tutte le sere prima di addormentarsi ripeteva mentalmente come fosse una preghiera quel poco che ricordava, si addormentava sempre con quei pochi ricordi insieme alla speranza di ricordarne altri. Rammentava solo che si era svegliato in questo stesso letto un anno e mezzo fa, tra una puzza nauseabonda di feci e piscio, sentiva un dolore atroce alla gamba destra e alla pancia, entrambe erano
fasciate con delle bende strettissime.
Ma era la testa che faceva più male, sentiva come se potesse esplodere da un momento all’altro, il bruciore degli occhi impediva di vedere con chiarezza il bagliore di una lampada accesa. Non riusciva a muoversi, era troppo debole, il respiro era affannoso, avvertiva delle contrazioni allo stomaco e del liquido acido risalire fino alla gola e che uscendo dai lati della bocca si riversava sul cuscino.
Sentiva un forte bruciore alla gola, provò a urlare ma la voce non uscì, riprovandoci emise un leggero rantolo così debole che non udì neanche lui. Si trovava in una stanza sporca e maleodorante, vicino
al letto c’era un vecchio comodino di metallo, era smaltato di bianco con delle grosse macchie di ruggine sul quale erano poggiati avanzi di cibo, medicine, siringhe e bende sporche di sangue.
Dopo vari tentativi, la voce cominciò a prendere più vigore fino a somigliare ad un suono per diventare poi qualcosa simile a un urlo.
Udì un lontano rumore di passi provenire dall’altra stanza. Qualcuno doveva averlo sentito, infatti comparve all’improvviso un’ombra. I suoi occhi non riuscirono a mettere a fuoco l’immagine, avevano lacrimato per i conati di vomito, per il dolore e lo sforzo che aveva fatto per urlare. L’ombra aveva i capelli lunghi. Doveva essere una donna infatti la voce era femminile anche se il suo tono era duro e sprezzante.
– Bravo, ce l’hai fatta! Sei stato in fin di vita su questo letto per molto tempo. Sapevo che saresti guarito, gli altri volevano riportarti nel posto dove ti hanno trovato. Sono io che ho dovuto comprarti le
medicine e pagare anche il medico che ti ha curato. Sei un uomo forte e robusto, spero di aver fatto un buon affare. Io di uomini ne capisco! Dopo che riacquisterai la salute sono sicura che sarò ricompensata per tutto quello che ho fatto per te. Chi sei? Come ti chiami? Da dove vieni? Chi ti ha ridotto così?
L’uomo comprese le domande della giovane donna ma non ricordava niente e mentre le labbra volevano muoversi per rispondere, la mente le bloccava perché dentro sentiva l’abisso e il vuoto di una profonda voragine, dove regnava il silenzio, l’assenza del tempo e dello spazio.
Disteso nel letto tra lenzuola stropicciate che non riuscivano a coprirlo del tutto, la poca luce e l’atmosfera cupa circostante, rendevano in quel preciso momento l’immagine di quell’uomo,
simile al famoso dipinto “Cristo moribondo” di Andrea Mantegna.
Lei intuì il disagio che con la sua curiosità aveva causato al povero uomo e questa volta con il tono, la voce e la gentilezza di una bambina disse:
– Scusami, chissà quanto avrai sofferto? Ti sei appena svegliato dopo giorni e giorni passati tra la vita e la morte ed io ti ho fatto tutte quelle domande. Mi racconterai tutto quando starai meglio.
La giovane donna si era presa cura di lui, lo aveva lavato e nutrito senza sapere chi fosse. Adesso i lineamenti del suo viso venivano alterati da uno strano sorriso, sembrava finto e innaturale, non doveva avere avuto molte occasioni per sorridere ma adesso era contenta perché con la sua ostinazione lo aveva salvato.
L’uomo riconobbe nella voce della donna, quella che sentiva quando era in stato d’incoscienza. Quella voce, che allora percepiva come una nenia lontana, per molto tempo, era stata il filo sottile su cui si era aggrappata la sua fragile vita. Le sue memorie finivano esattamente a questo punto, di tutto quello che era accaduto prima non possedeva nessun ricordo.
Paolo Sidoti
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