Come è possibile che un “meccanico” della Sicilia profonda, arcaica e feudale di Serradifalco, in provincia di Caltanissetta, ritenuto dagli inquirenti “vicino alla mafia”, diventi il numero uno dell’antimafia?
Come è possibile che in pochi anni costui assurga ai vertici di Confindustria (non solo siciliana, ma nazionale) e al tempo stesso entri nelle grazie dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi che pensa di nominarlo ministro dell’Interno? Come è possibile che questa persona di nome “Calogero Antonio Montante, in arte Antonello”, assieme ad altri papaveri di Confindustria nell’Isola (dal siracusano Ivan Lo Bello al “re” delle discariche Giuseppe Catanzaro), riesca a formare e a gestire una rete di ufficiali, di funzionari delle Forze dell’ordine, di magistrati, di uomini politici, di intellettuali e di giornalisti, che scrivono sotto dettatura, spiano e riferiscono puntualmente al capo?
Come è possibile che “il capo” metta sotto scacco un’intera classe politica (quella che in Sicilia comanda), che decida gli inciuci fra destra e sinistra, in particolare fra il piddino Beppe Lumia e i forzaitalioti Renato Schifani e Gianfranco Miccichè, che stabilisca i “contesti politici” alla Regione ai tempi di Totò Cuffaro, di Raffaele Lombardo, di Rosario Crocetta e per ultimo di Nello Musumeci?
È possibile! In una regione dove tutto deve cambiare purché tutto resti com’è, è possibile. E Attilio Bolzoni, grande giornalista di inchiesta di Repubblica, nel suo libro “Il padrino dell’antimafia. Una cronaca italiana sul potere infetto” (Zolfo editore), spiega perché. Raccontando la sua storia di cronista, che a un certo punto si imbatte in questa vicenda incredibilmente grossa, incredibilmente inverosimile, incredibilmente schifosa (una P2 del Duemila) per la quale trascorre anni difficili, d’inferno, fra pressioni che giungono all’editore di Repubblica, Carlo De Benedetti, addirittura dall’ex sindaco di Catania Enzo Bianco (anche lì il Pd, anche lì l’inciucio con la destra lombardiana e cuffariana, con l’aggiunta di un’amicizia particolare con il grande capo dell’editoria catanese Mario Ciancio, azionista di Repubblica), fino ai pedinamenti di cui egli è vittima assieme ai suoi familiari.
Tutto scritto, tutto documentato in questo volume di trecentododici pagine che spiega come, dopo il trauma causato dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, la mafia ormai allo stremo, deve rigenerarsi. I grandi capi come Riina, come Santapaola, come Provenzano marciscono nelle Patrie galere, scaricati da un pezzo di Stato (quello eversivo) che per decenni si è servito di loro, che hanno cercato voti e hanno fatto fuori i simboli dello Stato di diritto: adesso ci vuole “il delitto perfetto”, la mafia deve indossare “il vestito buono” dell’antimafia non solo per sopravvivere, ma per continuare a fare quello che ha sempre fatto: affari, soldi, piccioli.
A “Calogero Antonio Montante, in arte Antonello” – dopo l’ipotesi del dicastero dell’Interno – vengono spalancate le porte della gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Cifre colossali che un personaggio “in rapporti con la mafia” amministra in nome dell’antimafia, per giunta con il silenzio – denuncia Bolzoni – di certe associazioni al di sopra di ogni sospetto.
Ma non finisce qui. Il “delitto perfetto”, per essere tale, per diventare paradigma, deve arrivare fino ai piani alti della Nazione, alla Trattativa Stato-mafia, sia prima che dopo Capaci e via D’Amelio, deve arrivare alle telefonate che due altissime cariche istituzionali si scambiano sull’argomento: l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Quelle bobine, che la Corte Costituzionale ha ordinato di distruggere, si sospetta che siano state copiate e siano finite nelle mani di Montante grazie a quel reticolo di spie e di connivenze che l’ex numero uno di Confindustria Sicilia – adesso condannato in primo grado a quattordici anni con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e all’accesso abusivo a sistema informatico– ha costruito per conto di un pezzo di antimafia fin troppo distratta, in questo frangente, per non essersi accorta degli inganni che venivano orditi alle sue spalle.
In questo libro si parla soprattutto di Libera, e se ne parla con sofferenza, poiché l’autore spiega di essere stato per tanti anni – in occasione delle mille battaglie combattute in prima linea contro la mafia – sostenitore del movimento di don Ciotti. E però se ne parla. Onestamente, senza veli e senza infingimenti, come è giusto che un cronista uscito dalla scuola del quotidiano “L’Ora” di Palermo e poi della migliore tradizione di “Repubblica” debba fare.
Un’unica precisazione – per dovere di cronaca – ci permettiamo di fare a questo libro straordinario: nel 2014 non fu solo Mario Barresi de “La Sicilia” a parlare per la prima volta di “sistema Montante”. Nello stesso giorno su “L’Ora quotidiano” uscì un’intervista esplosiva all’ex Pm Nicolò Marino, che sette mesi prima era stato silurato dall’allora governatore Crocetta come assessore ai Rifiuti. Marino in quell’occasione ruppe il silenzio e puntò il dito – sia su La Sicilia, sia su L’Ora – contro Montante, contro Crocetta, contro Lumia, contro Catanzaro e contro Lo Bello. Il nome del giornalista che firmò quell’intervista è lo stesso che leggete in calce a questo articolo.
“L’Informazione”, assieme ad altre associazioni impegnate nel sociale, presenta questo libro nel territorio in cui ha sede: Belpasso e Paternò (Catania). A Belpasso, martedì 21 maggio 2019, alle 19,30 nell’Aula consiliare. A Paternò, due ore prima dello stesso giorno: 17,30 presso la fattoria Agorà (nella strada Paternò-Schettino). Assieme all’autore passeremo in rassegna i momenti più salienti di questa incredibile vicenda.
Luciano Mirone
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