Un’intervista esplosiva che costa ad Antonino Di Matteo il posto di procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e che sta suscitando l’indignazione del popolo dei Social (e non solo), il quale in questo momento sta guardando e riguardando i quaranta minuti di confessione a cuore aperto che il pm del processo Trattativa ha fatto al giornalista Andrea Purgatori su La7.
Chiariamo: secondo noi Di Matteo non ha detto nulla di nuovo rispetto a ciò che emerge dagli atti giudiziari, ma è il “come” lo ha detto che si è rivelato dirompente ed efficace. Quel modo di “mettere in fila” i fatti, quel tono di voce sempre sussurrato e mai sopra le righe, quel volto rassicurante da padre di famiglia, che buca il video ed entra direttamente nelle coscienze di un’opinione pubblica che lo vede sempre più come punto di riferimento, specie dopo la sentenza di primo grado del processo che sposa per filo e per segno la ricostruzione giudiziaria che lui, assieme ai colleghi Tartaglia, Teresi e Del Bene, ha fatto della Trattativa Stato-mafia.
Tanti i punti toccati dal magistrato in questa intervista rilasciata al giornalista che scoprì il caso Ustica. Una lezione di cultura antimafia, innanzitutto, perché Di Matteo ha detto esplicitamente che è giusto commemorare ogni anno Falcone, è bello emozionarsi ogni 23 maggio, ma per onorarlo degnamente bisogna scoprire e denunciare i mandanti esterni della strage di Capaci. Solo così Giovanni avrà giustizia.
Ma anche una lezione di spirito critico e di storia quando passa in rassegna il periodo che anticipò la strage, con quelle denunce dell’allora ministro dell’Interno Scotti che – dopo il delitto Lima – parlava di segnali inquietanti che anticipavano qualcosa di grosso, con riferimenti ad attentati che sarebbero capitati di lì a poco. Allarmi bollati come “patacche” dall’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, giudicato dai magistrati “vicino alla mafia” fino al 1980. Perché – si chiede Di Matteo – Scotti fu immediatamente sostituito?
Ma i perché non si fermano qui. Perché sul luogo della strage fu trovato un guanto che, secondo l’esame del Dna, fu usato da una donna di cui non è mai stata accertata l’identità?
Perché ad organizzare l’attentato fu Pietro Rampulla, boss di Mistretta ed ex estremista di destra?
Perché Rampulla all’ultimo momento non premette il pulsante del telecomando, compito attribuito successivamente a Giovanni Brusca? E qui – anche se nell’intervista non si fa cenno – si apre lo scenario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove quel telecomando fu costruito e dove allora operava il boss Giuseppe Gullotti – mandante, secondo i magistrati, del delitto del giornalista Beppe Alfano – che consegnò personalmente il marchingegno nelle mani di Brusca in quel di San Giuseppe Jato.
Perché Brusca, poi pentitosi, disse che la sola mafia non avrebbe potuto fare una cosa così perfetta? Brusca – incalza Di Matteo – non si è mai convinto che con quel solo telecomando sia stato possibile far saltare un pezzo dell’autostrada Palermo-Trapani, dalla quale quel pomeriggio del 23 maggio 1992 transitavano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. È possibile che ci fosse un secondo telecomando azionato da menti molto più raffinate di quelle dei mafiosi, chiede Purgatori? Di Matteo scuote la testa, come per dire: “E’ possibile”.
Perché la strage fu attribuita solo a Cosa nostra?
Perché subito dopo furono manomessi il sistema informatico e il Pc di Giovanni Falcone al ministero di Grazia e giustizia, con la sottrazione dei documenti che riguardavano le sue indagini?
Perché Falcone faceva paura? Per caso perché aveva puntato la sua attenzione su Gladio e sull’elenco dei gladiatori scoperti in quel periodo, fatto che fece infuriare l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, depositario di tanti segreti dell’Italia repubblicana, dal caso Moro al delitto dalla Chiesa, fino ai collegamenti fra la mafia e la destra eversiva che avrebbe portato Falcone a scoprire i retroscena scottanti del delitto dell’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella?
Perché l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco, escluse Falcone dalle indagini su Gladio, che poi – secondo quanto emerge dall’intervista a Purgatori – sarebbe stata coinvolta nella strage di Capaci?
Perché quando il boss Salvatore Cangemi chiese a Totò Riina “cosa dobbiamo raccontare ai nostri compagni mafiosi in merito alla strage di Capaci”, quest’ultimo rispose: “Dobbiamo stare zitti, sennò potrebbe essere la fine per Cosa nostra”. Evidentemente – afferma Di Matteo – il boss corleonese conosceva i segreti sull’eccidio e sui mandanti occulti.
Perché Falcone è stato delegittimato? E perché lo stesso schema si riproduce quando un uomo di Stato dà fastidio con le sue indagini che portano nel cuore delle istituzioni. Su questo argomento, il giornalista gli chiede se per caso si riferisce a situazioni che lo riguardano, ma il Pm del processo Trattativa minimizza (“Non importa”), caricando di significati – con la sua grande umiltà – una situazione che lo ha visto spesso nel mirino di certa stampa e di certa politica con una frase usata anche nei confronti di Falcone e Borsellino: “E’ malato di protagonismo”.
Ultimo capitolo: Matteo Messina Denaro. È l’unico mafioso di grosso livello di quella stagione stragista ancora latitante. Perché non viene arrestato? Perché – dice Di Matteo – il boss di Castelvetrano conosce anche lui troppi segreti sui rapporti fra mafia e istituzioni, a cominciare dai “mandanti esterni” di Capaci. A causa di questi segreti egli è in grado di ricattare lo Stato. Più chiaro di così…
Luciano Mirone
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