“Freni azionati da mani colluse con la cosca mafiosa e annidate presso uffici ‘strategici”. Parole inquietanti quelle che l’avvocato calabrese Giuseppe De Pace scrive al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, contenute in una lettera inviata nei giorni scorsi con la massima urgenza.
Il legale usa questa parola, “collusione”, fra certi “uffici strategici” del Tribunale di Catanzaro e la cosca mafiosa dei Mancuso, accusata di avere fatto a pezzi con un’autobomba azionata a distanza (nell’aprile 2018) il giovane biologo ed informatore scientifico di Limbadi (Vibo Valentia), Matteo Vinci, e ferito gravemente il padre. Entrambi sarebbero “colpevoli”, secondo gli inquirenti, di non aver ceduto un pezzo del suo terreno a “una delle cosche mafiose più feroci della Calabria” (secondo la definizione di Lucio Musolino del Fatto quotidiano).
E oggi, addì 11 giugno del 2019, gli stessi uffici dovrebbero notificare – anche su sollecitazione del ministro, attivato dalla lettera dell’avvocato De Pace – per la seconda volta l’atto dell’udienza preliminare a cinque persone ritenute responsabili dell’omicidio di Matteo Vinci e del tentato omicidio del padre: Rosaria Mancuso, il marito Domenico Di Grillo, le figlie Rosina e Lucia Di Grillo e il marito di quest’ultima Vito Barbara. Su cinque persone accusate – come si vede – , tre sono donne.
Sì, perché la prima notifica non è stata ritenuta valida per un “vizio” formale (cioè per “una notifica arrivata tardivamente”, scrive il legale), al punto che il gup ha dovuto rinviare l’udienza (fissata per lo scorso 7 giugno) al 21, con il rischio concreto di far scattare la decorrenza dei termini e quindi la scarcerazione per i cinque accusati.
Oggi dunque è il giorno del giudizio: se la nuova notifica arriverà in tempo, potrebbe esserci la possibilità di un’azione giudiziaria regolare, ma se dovessero esserci altri “vizi formali”, la possibilità che i presunti autori del delitto possano tornare a piede libero si fa concreta: “I coniugi Vinci-Scarpulla – seguita De Pace – sono letteralmente terrorizzati: presentono il pericolo del dissolvimento del processo e l’ombra della loro morte che si avvicina”.
A questo si aggiunge un altro fatto singolare: “Il motivo per il quale – scrive ancora De Pace – il medico del carcere dove è detenuto l’imputato Domenico Di Grillo ha stabilito l’impossibilità dello stesso a partecipare al processo in videoconferenza”.
Come si vede, gli ingredienti per la classica “storia italiana” – la burocrazia che non funziona, le presunte collusioni denunciate dal legale della famiglia Vinci – ci sono tutti. Ma questa è una storia che va oltre alle tante storie orrende che si verificano nel nostro Paese.
Perfino a quelle che si svolgono nella lontana Sicilia, dove le autobombe di Riina (fino al ’93) sono state utilizzate per cose molto serie e destinate a magistrati come Falcone, Borsellino e Chinnici che hanno messo in pericolo l’ordine costituito fra Cosa nostra e pezzi deviati dello Stato.
In Calabria no. Qui si decide di fare a pezzi una persona e di ferirne gravemente un’altra per una banale vicenda di terreni, che va molto oltre l’efferatezza di Riina e i rapporti fra Stato e antistato. Qui siamo all’”azione eclatante” da mettere in atto per questioni private. Che, badiamo bene, non vanno risolte attraverso “la buona parola dell’amico degli amici” o l’intimidazione o la minaccia o il colpo di lupara come estrema ratio. No, qui il rito tribale ha fatto il salto di qualità: l’autobomba per gli infami che sgarrano.
È questo il fatto nuovo che dovrebbe allarmare tutti, governo, giornali, opinione pubblica, questo fatto di inaudita gravità che spiega il livello di degrado che sta corrodendo la democrazia non solo in Calabria, ma in tutto il Paese. La Calabria è ormai terra di nessuno, una Colombia al centro del Mediterraneo, dove se ancora esiste una parvenza di Stato, lo dobbiamo a magistrati come Nicola Gratteri e ad altri uomini delle istituzioni che quotidianamente svolgono il loro dovere fino in fondo. La Calabria come Terra che – a differenza della Sicilia che ha reagito a una tristissima stagione di sangue – non ha ancora gli anticorpi per fronteggiare un fenomeno così difficile da estirpare.
Il governo – invece di farci assistere ai soliti e stucchevoli litigi fra Lega e M5S o ai teatrini contro i migranti – ha il dovere di intervenire, ma soprattutto di creare un presidio fisso in una Terra difficile come quella, non solo mandando più carabinieri o più soldati, ma creando le condizioni di civiltà (più lavoro, più scuole, più verde, più impianti sportivi, più legalità, più tanto altro) affinché la Calabria migliore possa emergere. A cominciare dalle donne.
Nell’attentato a Matteo Vinci – come sostengono gli inquirenti – le donne hanno un ruolo. Questo vuol dire che le donne, in Calabria, in un un modo o nell’altro, sono compartecipi dell’azione criminale.
E allora è necessaria una rivoluzione culturale che veda in prima linea soprattutto loro, le donne, quelle vere, quelle che, come Rosaria Scarpulla, la madre di Matteo Vinci, per protesta nei giorni scorsi ha occupato la stazione dei carabinieri di Limbadi, hanno orrore e vergogna di ciò che accade nel loro ambito. E gli uomini hanno il dovere di stare di fianco.
Luciano Mirone
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