Da Catania Fabrizio Sciacca andò via a 18 anni (era il 2011), destinazione Boston e New York. Voleva inseguire il sogno magico di “entrare nell’anima della musica”. Non è facile spiegare cosa vuol dire “entrare nell’anima della musica”. Oggi Fabrizio, che di anni ne ha 29, ha coronato quel sogno. Con un disco di cui è autore (Gettin’ It There), eseguito con i più grandi jazzisti del mondo, Billy Drummond alla batteria, Donald Vega al piano e Jed Levy al sassofono (lui è al contrabbasso), ha fatto una cosa che fino a una decina di anni fa sembrava impossibile. “Una pietra miliare della mia esperienza musicale – dice – , un album che esprime chi sono, un album che mi ha fatto crescere tanto, perché ho collaborato con gente straordinaria”.
Oggi Fabrizio, dall’America, viene nel nostro Paese per aprire i concerti di Anastacia di Grugliasco e di Valmontone e per ritirare dei premi prestigiosi: l’ultimo gli è stato consegnato a Salemi, in provincia di Trapani, ed è intitolato a Tony Scott, vero nome Anthony Joseph Sciacca, uno dei più grandi clarinettisti di tutti i tempi, figlio di emigrati salemitani trasferitisi in America all’inizio del Novecento, come l’inventore del jazz, quel Nick La Rocca originario di Salaparuta (a due passi da Salemi), che portò questo genere musicale a New Orleans.
Malgrado queste gratificazioni, Fabrizio non si monta la testa e prosegue con umiltà per la sua strada. Quando gli chiediamo, “per caso la tua famiglia, originaria di Salemi, è imparentata con Tony Scott?”, lui risponde: “Forse. Ma non voglio specularci sopra”.
Oggi Fabrizio frequenta un’altra scuola prestigiosa, la Manhattan School of Music, e suona nei migliori jazz club newyorkesi, il Minton’s Playhouse, storico locale del periodo del rinascimento di Harlem, dove si esibivano musicisti del calibro di Charlie Parker e Duke Ellington, oppure al Mezzrow e al Fat Cat di Manhattan.
Non è facile spiegare, dicevamo, cosa vuol dire “entrare nell’anima della musica”. Lui lo capì fin dai tempi del liceo. Dopo un anno di giurisprudenza a Catania, decise che doveva andarsene nella “patria” del jazz, del blues e dello spiritual, nell’America più profonda, quella “nera”, dove l’anima dolente degli schiavi dei campi di cotone si percepisce ancora oggi attraverso la musica.
Ma per perfezionarsi negli studi iniziati in Sicilia con il chitarrista Claudio Cusmano, Fabrizio aveva intuito che doveva frequentare il Berklee College of Music di Boston, il più importante istituto universitario privato del mondo dedicato alla musica contemporanea e allo studio del jazz. Conseguita la laurea in performance, basso elettrico e contrabbasso, si trasferisce a New York, non in un posto qualunque, ma nel quartiere nero di Harlem. Quindi se anagraficamente è da considerare catanese, musicalmente è un americano a tutti gli effetti.
“Gli Stati Uniti sono un posto speciale per ciò che voglio fare. Se vuoi imparare e capire una cosa, devi andare all’essenza di quella cosa: l’America è l’essenza del jazz, la cultura afro americana è il punto di partenza da cui questa musica si sviluppa. Ho avuto tanti maestri speciali, ma l’attuale è incredibile, Ron Carter, uno dei più grandi contrabbassisti del mondo, un signore di 82 anni dal quale vado settimanalmente a prendere lezioni: mi sta formando come musicista e come uomo”.
“I miei genitori mi hanno capito subito. Quando dissi che volevo trasferirmi in America, mi dissero: ‘Vai, insegui il tuo sogno’. Sono sempre stato portato per la musica. Papà mi faceva sentire i suoi dischi, specialmente quelli dei Dire Straits: non era jazz, ma hanno contribuito a farmi innamorare della musica. Da bambino ebbi in regalo il primo basso elettrico (uno strumento che non mi ha mai abbandonato): da lì ho cominciato la mia strada”.
“Perché il jazz? Perché una volta che entra nella tua vita non esce più. Il jazz è una ricerca continua, è come cercare se stessi. Con questo spirito me ne andai dalla mia città. All’inizio sono stato preso da una sorta di straniamento, come tutti quelli che si trovano a contatto per la prima volta con una cultura diversa, poi mi sono ambientato: Boston non è pazza e super dinamica come New York. È più tranquilla, la transizione non è stata traumatica”.
“Il Berklee College è una scuola eccezionale: oltre 500 insegnanti, non è il tipico College statunitense dove trovi solo americani. Ci sono coreani, cinesi, sudamericani, americani e italiani. L’inizio è stato molto affascinante, poi mi ci sono abituato e alla fine, per la grande voglia di crescita, Boston mi stava troppo stretta”.
“Nel 2015 andai a New York. Non a caso scelsi di andare a vivere ad Harlem, un quartiere che ha avuto un ruolo molto importante nello sviluppo di questa musica, a partire dall’Harlem renaissance, il rinascimento di Harlem, quando il jazz, da New Orleans e da Kansas City, si trasferì a New York. Tutti i più grandi jazzisti del tempo, da Dizzy Gillespie a Thelonius Monk, suonavano in quel quartiere. Oggi il livello è altissimo. Cosa mi ha colpito di più? La serietà con cui si approccia la musica. Per i grandi del jazz la musica è una missione, un modo e una ragione di vivere. E secondo me, a New York questo è un elemento fondamentale”.
“Il jazz è un canale di espressione dell’animo umano, cambia e varia a seconda del tuo umore, di come ti senti quel giorno, delle esperienze che ti capitano. È un genere basato sull’improvvisazione, quindi, come diceva Charlie Parker, ‘studia quanto più possibile, ma quando suoni dimenticati di tutto ed esprimiti come meglio credi, sii te stesso’. Il jazz te ne dà l’opportunità, più degli altri generi musicali”.
“Con New York vivo un rapporto di amore-odio. O si ama alla follia o si odia alla follia. Nel primo caso ti offre delle opportunità straordinarie, nel secondo si vive una vita frenetica e stressante. Il mio sogno è quello di esprimere sempre più me stesso attraverso la musica e ispirare le persone, trasmettere delle emozioni a chi mi ascolta e rendere più bella l’esistenza di tutti. Perché la musica è vita”.
“E però per capire il jazz devi capire il blues, non come genere musicale ma come spirito: i neri che lavoravano nei campi cantavano i cosiddetti spiritual e trasmettevano l’anima di quel popolo. Solo la musica ti può far rivivere quell’esperienza. Il jazz è un modo di vivere e a me il jazz dà la felicità di vivere”.
“I grandi musicisti mi hanno insegnato che la serietà, la cura dei dettagli e il perfezionismo sono fondamentali. Il batterista Billy Drummond è una persona speciale. Di recente ho suonato con lui in questo famoso locale di New York, il Fat Cat: un momento meraviglioso. Billy è una forza della natura, quando suona è così attento a ogni minima cosa che sul palco che si fa delle sudate pazzesche”.
“Ma quando parlo di grandi devo obbligatoriamente citare Ron Carter, questo contrabbassista dal quale sto apprendendo tutto. Va in giro per il mondo a fare spettacoli ed è acclamato da tantissima gente. E’ la prova vivente che non bisogna mai mollare. Quando nel 2015 mi sono trasferito a New York, lui per oltre un anno mi ha ignorato. Un giorno, mentre mi trovavo a Catania per le vacanze estive, dopo l’ennesima insistenza di mio padre (“Ma perché non gli mandi una mail”, “Dai papà, gliene ho mandate tante”. “Mandagliene un’altra”. “E va bene, solo per farti contento”), gli invio l’ennesima lettera. Dopo un’ora mi risponde: ‘Ok, il 6 settembre alle 12 vieni da me per la prima lezione’. Toccai il cielo con un dito. Dopo quella lezione ho continuato a frequentare la Manhattan School of Music e parallelamente ad avere come insegnante proprio lui, il mio idolo: Mr. Ron Carter”.
“La Manhattan School of Music, per la prima volta, aveva concesso a uno studente di scegliere un insegnante esterno alla facoltà. Sono stato il primo fortunato. Evidentemente la scuola ha creduto in me. Da non credere”.
Luciano Mirone
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