Perché il Capitano Ultimo, alias Sergio de Caprio, attuale Colonnello dei carabinieri, si ostina a negare l’evidenza perfino quando un magistrato integerrimo come Giancarlo Caselli, ex procuratore della Repubblica di Palermo, lo tira in ballo a proposito della mancata perquisizione del covo di Riina, seguito alla cattura del boss (15 gennaio 1993, nel giorno dell’insediamento di Caselli a Palermo) da parte dello stesso ufficiale? Perché usa determinati argomenti per cercare di giustificare un’operazione che ancora – a distanza di oltre un quarto di secolo – resta uno dei principali “buchi neri” del nostro dopoguerra?
Per capire ciò di cui parliamo è bene riportarci all’udienza di ieri nel processo Trattativa, giunto al secondo grado di giudizio, dopo le condanne per gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà (tutti 12 anni), medico fedelissimo di Totò Riina, per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno (8 anni), e per il boss Leoluca Bagarella (28).
Ieri Caselli ha ripetuto ancora una volta che, in merito alla mancata perquisizione del covo di Riina, lui era “per intervenire subito”, ma, “mi sono fidato del capitano De Caprio che lo aveva arrestato”, perché, ha aggiunto, “De Caprio era in quel momento un eroe nazionale, che aveva messo le manette al mitico, nel senso negativo del termine, Totò Riina”.
Traduzione: non puoi non fidarti di un personaggio che arresta un mafioso teoricamente ricercato dalle polizie di tutto il pianeta, ma sostanzialmente protetto per quarant’anni dallo Stato deviato, che quando diventa troppo ingombrante lo liquida perché in fin dei conti non serve più.
“L’interruzione del servizio di sorveglianza – seguita Caselli – che non ci fu comunicata, è stata una brutta pagina”. In breve: Ultimo cattura Riina e Caselli – insediatosi da poche ore nel capoluogo siciliano – si fida ciecamente di lui e dei suoi superiori, fra cui il generale Mario Mori. Il problema è che il covo viene lasciato in balia di chi “deve” prelevare “certi” documenti, oggi probabilmente nelle mani di qualcuno che ricatta qualche altro.
La replica di Ultimo – processato per questa vicenda e assolto – non si è fatta attendere: “Quindi l’eroe nazionale per la lotta al terrorismo (il colonnello De Caprio si riferisce agli anni in cui Caselli, da procuratore di Torino, è stato in prima linea nella lotta al terrorismo, ndr.) aveva sudditanza psicologica verso il Capitano Ultimo”.
Perché il colonnello De Caprio parla di “sudditanza psicologica” se Caselli ha detto semplicemente di “essersi fidato”? “È questa la vera brutta pagina che emerge oggi”, rincara Ultimo. E ancora: “Chi aveva la responsabilità e il dovere di eseguire la perquisizione nel covo di Riina se ne deve assumere la piena responsabilità di fronte a se stesso e di fronte alla storia”.
La storia, già… E’ bene ripercorrerli quei giorni drammatici per capire questa incredibile polemica che Ultimo sta imbastendo perfino con un magistrato che – dopo l’eccidio di Capaci – chiese espressamente di essere trasferito da Torino a Palermo per continuare la lotta di Giovanni Falcone. E per ironia della sorte arriva nel capoluogo siciliano nello stesso giorno della cattura di Riina.
C’erano state le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Totò Riina – dopo le esemplari condanne del maxiprocesso, che andavano in contraddizione con le assoluzioni per insufficienza di prove dei decenni precedenti – decise di “fare la guerra allo Stato per poi fare la pace”, ovvero scatenare l’offensiva per portare le istituzioni a più miti consigli: un accordo su determinate questioni che lui riteneva “irrinunciabili”.
Ecco allora il famoso “papello” (in cui il capomafia corleonese fa una serie di richieste), ed ecco la famosa Trattativa – nella quale, secondo gli atti processuali, si inserisce anche il Generale Mori, all’epoca diretto superiore di Ultimo ai Ros – mediante la quale parte di quelle istanze vengono esaudite.
Borsellino capisce tutto e si mette di traverso. Verrà trucidato cinquantasette giorni dopo Capaci assieme alla sua scorta nell’ambito del “più grande depistaggio della storia”, più di piazza Fontana, più della stazione di Bologna, più di Ustica, più di dalla Chiesa, più della stessa Capaci, più di Rostagno, più di Fava, più di Attilio Manca (un caso quest’ultimo che alle vicende che vi narriamo è collegato, anche se i magistrati – compresi Pignatone e Prestipino – hanno fatto di tutto per archiviare).
La verità è che lo Stato non poteva consentire che l’opinione pubblica aprisse gli occhi: e quindi da un lato trattò con Riina, e si ammorbidì pure; ma dall’altro era obbligato a catturarlo: il boss era diventato troppo pericoloso, poteva mettere altre bombe, ordinare altri delitti eccellenti (quello di Salvo Lima non era altro che un monito lanciato al sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti per le condanne del maxiprocesso), vuotare il sacco.
Ecco quindi che diventava urgente ricorrere a un intervento di altissima chirurgia: catturarlo sì ma neutralizzando il covo. Certo, Riina avrebbe potuto essere micidiale anche dal carcere, ma se ti mancano le “pezze d’appoggio”, le carte segrete, i documenti compromettenti, diventi un patetico leone sdentato sul quale si ride quando apre la bocca.
Riina infatti la bocca non l’aprirà neanche dal carcere (solo qualche minaccia al pm del processo Trattativa, Nino Di Matteo), non per mancanza di senso del ridicolo, ma per quell’altrettanto ridicola cultura dell’omertà che avrebbe inghiottito i suoi segreti fino alla morte.
La storia è ben più complessa di come la descrive Ultimo, ben più complessa delle fiction di Mediaset (di cui i magistrati, su input di alcuni collaboratori di giustizia, sospettano da tempo un coinvolgimento nelle stragi del suo fondatore Silvio Berlusconi, ma intanto condannano il fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri), dove un bello e muscoloso Raoul Bova cattura il capo dei capi, ma della mancata perquisizione del covo di Riina, dei retroscena che l’hanno caratterizzata, dei personaggi che hanno dato certi ordini, non fa cenno: abbiamo creato l’eroe, l’opinione pubblica è servita.
Sì, la storia è ben più complessa di come la descrive “l’eroico” l’ufficiale dei carabinieri che ha catturato un mostro come Riina (in questo caso il termine “eroico”, benché retorico, riteniamo giusto usarlo), che a nostro avviso – è detto bonariamente – continua a commettere delle cappellate talmente incedibili da attirarsi delle critiche sacrosante: prima bolla il processo Trattativa come una “buffonata”, poi attacca Sonia Alfano per delle vicende paradossali relative alla mancata cattura di un altro boss di Stato come Nitto Santapaola, adesso se la prende con Caselli.
Su una cosa però ha ragione: lo Stato ha commesso una palese ingiustizia nel revocargli la scorta col pretesto che siccome Riina è morto, il Colonnello De Caprio non corre più pericoli. La mafia non è una equazione. E non dimentica.
Ma il De Caprio che ha arrestato il capo dei capi va scisso dal De Caprio che non dice tutto quello che sa. Il primo merita tutti gli onori per quello che ha fatto (e noi, per quello che può valere, abbiamo firmato la petizione per il ripristino della sua scorta). Il secondo va criticato, e pure fortemente, per i silenzi che lo hanno caratterizzato e per gli attacchi sferrati a gente come Caselli.
Ma mettiamoci in testa una cosa: anche se intimamente Ultimo si fosse reso conto di essere stato vittima (allora era un giovane Capitano, dunque un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro) di un sistema più grande di lui, non ammetterà mai – qualora ci fosse davvero questa elaborazione introspettiva – gli orrori commessi dai suoi superiori. Ultimo è innanzitutto un soldato.
Luciano Mirone
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