Che brutta notizia. E’ morto Pietro Anastasi. Una notizia alla quale non credi, perché i miti non muoiono mai. Eppure leggi che si è spento, consumato dalla Sla. Che brutta notizia per chi si è perdutamente innamorato del calcio di allora, per chi ricorda quel colpo di fulmine che infiammò gli animi degli italiani con quel secondo gol in bianco e nero che Pietro fece alla Jugoslavia con il quale decretò la vittoria della Nazionale agli Europei del 1968: ecco-Anastasi-che-alza-la-palla-con-un-piede-Tira-con-l’altro-e-fa-gol. Inimmaginabile! Da allora avrei tifato per la squadra di Pietruzzu e avrei giocato a pallone dalla mattina alla sera. E se qualcuno mi chiedeva a che ruolo giochi?, rispondevo: centravanti, numero 9, con la maglia della Juventus, come lui, come Pietro Anastasi.
Fu quello il mio Sessantotto. A sette anni non può essere diversamente. Ma a sette anni, se percepisci che un gol segnato da un siciliano, catanese per giunta, può rappresentare il riscatto di una terra, allora è fatta, perché è vero che lo sport ha un filo di collegamento – seppure inconscio – con la politica, come la favola nella quale gli eroi antichi sconfiggono i draghi. Nel nostro caso l’eroe era quel ragazzo con quella faccia da catanese, la pelle olivastra e il ciuffo nero. Il drago era il sottosviluppo e la mafia.
Voi non ci crederete, ma ogni volta che vado all’aeroporto di Catania posteggio la macchina in un dato posto che mi dà la possibilità di passare a piedi dal campetto di periferia dove Pietro mosse i primi passi con la Massiminiana, la squadra del presidente Massimino, e ogni volta mi piace sbirciare tra le fessure di quei muri cadenti per osservare il campo invaso dalle erbacce. E vedo lui, Anastasi, che dopo una serie di dribbling ubriacanti si “beve” anche il portiere e fa il gol della vittoria. E vedo il presidente del Varese sulle tribunette: quel giorno l’aereo è in notevole ritardo e lui, per ingannare il tempo, va a vedere la Massiminiana e resta incantato da questo splendido giocatore proveniente dai quartieri popolari della città. La stagione successiva lo porta a Varese.
Ma uno come Anastasi, in B, non può restare a lungo. L’anno dopo eccolo alla Juve. Lui, ragazzo povero del profondo Sud, nella squadra più forte d’Italia. Allora scopri che le vere favole sono queste, mica quelle raccontate dai grandi.
E allora ti tuffi nelle avventure del tuo eroe e ne segui le gesta… Anastasi in ritiro con la Nazionale prima dei Mondiali del ’70… Anastasi che per un malore improvviso deve lasciare il ritiro… Anastasi che cede il numero 9 a Boninsegna… Anastasi che a suon di gol vince tre scudetti con la Juve.
Ma Anastasi devi vederlo dal vivo. E allora… Quella volta partimmo all’alba da Patti per andare nell’altra parte della Sicilia, nientemeno a Palermo: l’autostrada non l’avevano costruita, la Statale era una cosa pazzesca, curve, tornanti, camion, specie se la fai con una Seicento. Una delle arterie più disastrate del mondo per andare a vedere l’eroe dei nostri sogni, cinque ore per andare e cinque per tornare, costeggiando castelli, spiagge e lo sfondo delle Isole Eolie.
Quella volta ero ospite dei Pellicanò, figli dell’Arma anche loro, la famiglia più juventina che esista sulla faccia della terra. La mamma dei miei inseparabili amici, Gianfranco e Giuseppe, quel giorno venne a Palermo vestita di bianconero. E Gianfranco portò pure la bandiera, che per ovvie ragioni restò arrotolata in macchina.
La Favorita era una bolgia. File dalle dieci del mattino. Davanti allo stadio c’erano i banniatori, uno diceva accattativi ‘u popolaru (i bagarini che invitavano ad acquistare i biglietti delle curve) ed l’altro accattativi ‘a gomma del Ponte (la Brooklyn).
Quel giorno però non vedemmo il nostro eroe dal vivo. Il destino ci giocò uno strano scherzo per una storia un po’ complicata da raccontare. Gianfranco l’avrebbe visto qualche mese dopo, ad appena tredici anni, quando partì col treno per festeggiare all’Olimpico di Roma uno dei tanti scudetti della Juve. Io lo avrei visto alcuni anni dopo con la maglia della squadra rivale, quella dell’Inter.
Certo, faceva un po’ di impressione vederlo in nerazzurro , ma per me non era cambiato nulla: era il solito grande Pietruzzu.
Luciano Mirone
Quelli si che erano miti ed erano anche anni di un mondo, in “bianco e nero” non necessitavano di essere “colorati, dipinti” per essere vissuti, ricordati e tramandati. Grazie per le emozioni che mi hai regalato in nome di “pietruzzu” che lui possa riposare in pace