Confermata anche dalla Suprema Corte di Cassazione la condanna a 30mila Euro a titolo di risarcimento per il danno all’immagine a favore del Comune di Belpasso, costituitosi parte civile nel processo per l’omicidio dell’imprenditore agrumicolo Fortunato Caponnetto. La Cassazione sancisce così quanto stabilito dalla sentenza di secondo grado, emessa dalla Corte di Assise di Appello di Catania, e per effetto anche la conferma delle statuizioni civili.
La Corte di Cassazione, infatti, ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati dagli imputati, alcuni divenuti nelle more del processo collaboratori di giustizia e ha dunque confermato che l’Ente andrà risarcito per il danno di immagine nella misura di 30mila Euro oltre alle spese legali. Il Giudice di primo grado aveva ritenuto il Comune di Belpasso l’unica parte offesa da tutelare, rispetto ad altri che avevano fatto richiesta di costituzione di parte civile.
A rappresentare la cittadina etnea in Cassazione è stato l’avvocato Ignazio Danzuso del Foro di Catania. Gli Amministratori belpassesi hanno reso necessaria la costituzione di parte civile in tutti i gradi di giudizio “al fine – è scritto in un comunicato stampa – di difendere e tutelare il buon nome e la volontà di riscatto di immagine e morale del Comune.
«Questa azione giudiziaria – dice il sindaco Daniele Motta – in un processo penale è una scelta doverosa nei confronti dei nostri concittadini al fine di garantire la predominanza della legalità nel nostro territorio. Riteniamo che questa debba essere una strada che ormai tutte le Amministrazioni devono intraprendere per dissociare le nostre comunità da azioni criminali e per difendere, differenziare, la società civile».
Come si ricorderà, i fatti risalgono all’8 aprile 2015, quando l’imprenditore agrumicolo di Paternò Fortunato Caponnetto, scomparve improvvisamente. Si scoprì poi che era stato ucciso dal pregiudicato di Belpasso Aldo Carmelo Navarria (oggi collaboratore di giustizia), ex appartenente al clan del Malpassoto Giuseppe Pulvirenti. Navarria, dopo l’omicidio, distrusse il cadavere bruciandolo nei copertoni che aveva dato alle fiamme. Movente: regolamento di conti.
Il provvedimento traeva origine da un’indagine, denominata “Araba Fenice”, avviata all’indomani della scomparsa dell’imprenditore, attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, pedinamenti e video-riprese, riscontrate dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Carmeci, organico alla frangia di Navarria e presente alle fasi salienti dell’efferato delitto.
Come si ricorderà, il 23 giugno 2014 Aldo Navarria, ex uomo di fiducia a disposizione del famigerato “Malpassotu” (braccio armato di Nitto Santapaola), fu scarcerato dopo ventisei anni e mezzo di reclusione, essendo stato condannato all’ergastolo (un ergastolo ridotto prima a trent’anni e poi a ventisei) per sei omicidi.
Una volta fuori, secondo gli investigatori, Navarria “si poneva al comando di un gruppo, alle dirette dipendenze di Francesco Santapaola (pro-cugino di Nitto)”, arrestato dai carabinieri nell’aprile 2016, nell’ambito dell’indagine Kronos.
L’8 aprile 2015 Fortunato Caponnetto (conosciuto come “Renato”) scompariva nel nulla dopo un incontro con Navarria avvenuto a Belpasso nella villa in costruzione del capoclan.
Le indagini effettuate dagli investigatori dell’Arma, e coordinate dalla Procura etnea, consentivano di far luce sull’omicidio e di ricostruire che l’imprenditore paternese era stato prima picchiato e poi strangolato con il metodo della “garrota”. Il cadavere veniva poi completamente distrutto mediante il fuoco alimentato da vecchi pneumatici, secondo il tradizionale modus operandi utilizzato, nel passato, dai “Malpassoti”.
Il movente sarebbe da addebitare alla promessa non mantenuta da Caponnetto di assumere Navarria presso la propria azienda, preferendogli un presunto appartenente ad altra organizzazione mafiosa operante nel paternese. Uno “sgarro” che l’ex braccio destro del Malpassoto non perdonò, ma vendicò con un delitto così efferato.
Luciano Mirone
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