Da pochi giorni è disponibile in tutte le librerie, “Cuore avvelenato” (editore: Albatros-il filo; pagg. 333, prefazione Alfia Milazzo, presidente della fondazione “La città invisibile” di Catania), il nuovo romanzo di Domenico Rizzo, seconda parte della cosiddetta “Trilogia di Risi”. La trama segue le vicende del giudice Andrea Risi, protagonista del primo libro (“L’imperatore dei limoni”), solo che, a differenza di questo, “Cuore avvelenato” ha un’ambientazione più realistica: i fatti si svolgono a Palermo attraverso luoghi conosciuti, il palazzo di giustizia, la stazione centrale, il carcere dell’Ucciardone, e tanti altri posti che l’immaginario collettivo conosce o immagina. Il giudice Risi, coadiuvato dal commissario Samuele Spina, sarà impegnato a venire a capo di un sanguinosa guerra di mafia, concentrando le sue attenzioni anche sulla ricerca del superlatitante Michele Caparra, capo indiscusso dell’organizzazione mafiosa e burattinaio della guerra. Protagonista del romanzo è anche una famiglia mafiosa, composta da due fratelli, Candido e Stefano Sperta, nemici del capo mafia Michele Caparra e trascinati nella guerra di mafia in corso. Come linea temporale della trama non è difficile identificare i primi anni ottanta, facilmente riconoscibili da elementi importanti di quel periodo (la lotta fra cosche), o alcuni dettagli minori ma iconici come la trasmissione radiofonica “tutto il calcio minuto per minuto” con le voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti. Significativa la frase di Albert Camus posta all’inizio del libro: “Il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni forse fanno male quanto la malvagità se esse mancano di comprensione”. Quello che segue un brano del romanzo.
“A pochi passi da una quercia immersa nella periferia Palermitana, appoggiato a una delle due macchine, parcheggiate una accanto all’altra, Angelo Caparra terminò di dare le ultime disposizioni ai tre uomini che, in liturgico e rispettoso silenzio, ascoltavano in piedi davanti a lui.
Il lapidario soprannome “squadra della morte” rendeva perfettamente l’idea della ferocia dei suoi componenti, capaci, negli ultimi quattro anni, di mettere in pratica tutte le condanne a morte emesse del loro capo, con un bilancio che si aggirava sui duecento omicidi.
Giuliano lo Turco, un ventinovenne dalla prorompente statura di due metri e dieci, rasato in testa e con un fisico statuario, era soprannominato “Il reverendo” per due abitudini che lo contraddistinguevano: vestirsi sempre con abiti neri e farsi il segno della croce dopo ogni omicidio.
Michelangelo Fumaro lo chiamavano “La serpe” per la freddezza che dimostrava in ogni occasione, dall’omicidio più cruento alla situazione più difficoltosa. Anni prima era stato fermato a Catania da una volante della polizia. In centrale, un giovane commissario, gli contestava alcune imperfezioni della sua patente che si era dimostrata falsa. Davanti alle insistenti domande del poliziotto, la Serpe aveva ripetuto per due ore la stessa risposta: “mi chiamo Alessandro Russo e sono un contadino”
Al commissario, davanti al ritornello di quel giovanotto basso e tarchiato e con due occhi azzurri glaciali, non era rimasto altro da fare che sequestrargli la patente e, dopo avergli verbalizzato una grossa multa, lasciarlo andare. La Serpe aveva reagito alla situazione con un impassibile silenzio e, varcata la soglia della centrale, aveva impiegato meno di mezzora per buttare la multa per terra e trovare una macchina da rubare per tornare a casa.
Pino Fortezza detto “Briscola” doveva il suo nomignolo alla propria bravura nel famoso gioco di carte in cui riponeva tutte le qualità, tra cui soprattutto cinismo destrezza e furbizia, le stesse qualità che gli avevano permesso di fare strada nel ramo della malavita organizzata. La sua corporatura, robusta e tarchiata, lo rendeva particolarmente forte e non a caso era toccato quasi sempre a lui tirare la corda delle tante povere vittime che erano state rapite e poi strangolate dalla squadra della morte. Il reverendo, la serpe e briscola ascoltarono fino in fondo le disposizioni di Angelo Caparra orientate verso la riunione del giorno dopo nella cascina di Francesco de Paola, dopodiché, salutato con rispetto il loro vicecapo, salirono sulla loro macchina e scomparvero nel buio della campagna”.
Redazione
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