E’ polemica fra Le Iene e il giornalista di Repubblica, Attilio Bolzoni, per un articolo che quest’ultimo ha scritto l’11 marzo scorso sui “misteri del caso Antoci”, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, autore dell’importante Protocollo che impedisce ai mafiosi di accedere agli ingenti finanziamenti europei.
Polemica aspra. Perché su questa vicenda, la trasmissione di Italia1 si ritiene “attaccata con parole molto dure”. E così la redazione – con Gaetano Pecoraro in testa, che con il suo recente servizio sull’argomento ha dato la stura alle polemiche – scrive una lettera di protesta al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari (che l’ha pubblicata ieri) per contestare il pezzo: “Il giornalista – scrivono Le Iene – dopo avere definito ‘scorribande’ le nostre interviste, senza spiegare perché, parla di ‘sceneggiata’, riferendosi ad una intervista fatta a Franco Viviano (su L’Espresso, ndr.), autore di uno scoop che ha riscritto la storia dell’attentato ad Antoci. Viviano – continua la redazione di Italia1 – pubblicò un’intercettazione in cui i mafiosi dei Nebrodi, anche loro, cercavano gli autori dell’attentato ad Antoci”, nel senso che questi ultimi – aggiungiamo noi – parlando fra loro, non riuscivano a dare una spiegazione né sugli autori, né sui mandanti, né sul movente del fallito delitto.
“Ma c’è un documento, però – aggiungono Le Iene – della procura di Messina, secondo cui questa intercettazione non esiste. Siamo andati dal collega Viviano, per poter dirimere ogni dubbio, senza mai chiedere le sue fonti, solo per sapere se è possibile vederla e/o ascoltarla. Risposta: ‘Non ce l’ho’. E questa per voi sarebbe una ‘sceneggiata’?”.
Questa la risposta di Bolzoni: “Conosco gli atti del ‘caso Antoci’ e, proprio per questo, ho dedicato un articolo alla vicenda evidenziandone le numerose anomalie. Tutto qui. Per quanto riguarda Franco Viviano, ha fatto come sempre il suo mestiere, il cronista”.
Una diatriba che nasce, come detto, dall’articolo di mercoledì scorso, in cui Repubblica mette in evidenza “i dubbi sull’agguato” che nella notte del 17 maggio 2016 viene messo in atto contro Antoci: una strada di montagna completamente al buio, dei sassi disposti sulla carreggiata per interrompere il cammino dell’auto blindata dove l’ex presidente del Parco dei Nebrodi viaggia assieme alla scorta; tre spari che colpiscono la fiancata sinistra (ma del fucile che ha sparato, secondo l’indagine, non si sono mai trovati i bossoli) e delle molotov rinvenute a poca distanza. Improvvisamente arriva a gran velocità il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro (assieme all’assistente capo Tiziano Granata alla guida), spara contro gli attentatori (tre, secondo la versione dei poliziotti) e li mette in fuga.
Su questa ricostruzione si innestano polemiche a non finire. Manganaro, quella sera “fuori servizio”, si era trattenuto a cena con Antoci a Cesarò. Quando finiscono di mangiare, quest’ultimo prende la strada del ritorno, mentre il funzionario di polizia si intrattiene per circa dieci minuti col sindaco di Cesarò, in attesa di tornare a casa. Poi Manganaro, “insospettito improvvisamente dalla presenza di alcuni personaggi inquietanti davanti al ristorante”, cambia programma e dice all’assistente capo Granata (deceduto poco tempo dopo “per arresto cardiaco”, ma secondo la sua ex compagna, “per sospetto avvelenamento”) di procedere velocemente verso la direzione opposta in modo da raggiungere Antoci “in pericolo”. La macchina sfreccia in mezzo ai boschi: bisogna annullare quei dieci minuti di gap, questione di vita o di morte. Manganaro corre verso Antoci, e però non mette sull’avviso la scorta del Presidente: “Per evitare tensioni”, dice. Recupera il ritardo, arriva sul luogo dell’attentato e affronta gli attentatori, che da quel momento si volatilizzano nella foresta, senza che nei minuti successivi – secondo quanto emerge dall’inchiesta – venga istituito un posto di blocco.
Questa ricostruzione – alimentata da altri stranissimi misteri – crea perplessità, divisioni, contrapposizioni a non finire: da un lato i pm di Messina che parlano di “pista mafiosa”, dall’altro la commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava, che, dopo avere ascoltato decine di testimoni, formula tre ipotesi: “L’attentato mafioso fallito, l’atto puramente dimostrativo, la simulazione”. Fra queste, dice l’Antimafia, “il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile”. In ogni caso, sottolinea, si tratta di tesi che “vedono Antoci vittima”. Vittima! Parola inequivocabile che Bolzoni ribadisce nel suo pezzo, “a scanso di equivoci”.
Eppure sulla relazione dell’Antimafia si innesca una terza diatriba: Le Iene contro Claudio Fava. Con il giornalista Gaetano Pecoraro che, lancia in resta, irrompe senza preavviso nella quotidianità del presidente dell’Antimafia regionale e lo accusa di avere “mascariato” (infangato) Antoci, col tono col quale solitamente si rivolge a un politico corrotto o colluso.
Degli ottantaquattro minuti di quella “intervista” (di cui, se si fosse trasmessa la registrazione integrale, avremmo potuto cogliere un certo metodo di fare giornalismo), solo quattro o cinque sono andati in onda; il resto è stato affidato a un montaggio sapientemente cucito per far passare Fava come il delegittimatore sia di Antoci, sia dell’apparato preposto alla sua sicurezza, sia della magistratura messinese, di cui la Commissione mette in rilievo le discrepanze fra la Procura e il Gip sulla ricostruzione dell’attentato.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che Bolzoni focalizza la sua attenzione: “Mai si era visto un attentato di mafia senza un solo mafioso caduto nella rete. Mai. E mai indagini così traballanti sono state spacciate come una sorta di capolavoro d’ingegneria giudiziaria. Di colpevoli certi, però, neanche l’ombra”.
Bolzoni non è un giornalista qualsiasi. E’ un giornalista di strada. Uno che si è formato quarant’anni fa nella grande scuola de L’Ora di Palermo, ha consumato decine di scarpe per raccogliere notizie e raccontare i delitti eccellenti, le stragi di Stato, i depistaggi . Ha un fiuto incredibile, e scrive che in questa vicenda, di fatti strani ce ne sono tanti. A cominciare dal “piccolo” particolare che gli attentatori girano tranquillamente da quattro anni senza che nessuno li disturbi.
“E questo – prosegue Bolzoni – lo si vorrebbe far passare come un dettaglio dentro una storia comunque già scritta. E pure ‘certificata’ da una virulenza informativa di regime — per non incrinare la versione patinata della vicenda — che non ha eguali in Sicilia nemmeno negli scabrosi travestimenti ‘legalitari’ degli ultimi anni”.
Un affondo per dire che l’archiviazione di questa inchiesta “fatta male” (che dovrebbe costituire l’asse portante dell’intera vicenda) viene derubricata a fatto secondario dall’informazione di regime, la quale, in modo aggressivo, omette delle circostanze fondamentali per ricostruire la verità e assolutizza i dettagli per dare una versione “patinata” (edulcorata, costruita) del caso. Tutto questo – dice il giornalista – non ha precedenti, neanche nella storia recente di certi personaggi che di giorno indossano il vestito buono dell’antimafia e di notte ne indossano altri. E anche su questo Attilio ha fiuto, dato che nei mesi scorsi ha smascherato il “sistema” messo su dall’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante. Basta leggere il suo ultimo libro, “Il padrino dell’antimafia”, per capire tante cose.
Il punto centrale del caso Antoci, seguita Bolzoni, è comunque questo: “Dove eravamo rimasti quattro anni fa, siamo fermi ancora oggi. Siamo al nulla, al mistero profondo”. Parole pesanti. Che mettono in dubbio, ancora una volta, la consistenza dell’indagine archiviata a Messina.
E allora “perché”, si chiede il giornalista, “tutta questa grancassa intorno a quello che viene contrabbandato ‘come uno degli attentati più efferati dopo le stragi del 1992’?”. Perché vengono considerate “eresie” le domande di chi è abituato “a dare per scontato ciò che scontato sempre non è”? Perché il “divieto assoluto di dissentire”?
“Due anni d’indagine – dice Bolzoni – hanno portato al proscioglimento di 14 boss per mancanza di indizi”, con “uno scontro istituzionale senza precedenti fra la magistratura inquirente messinese e la commissione parlamentare di Fava, colpevole di avere smontato pezzo dopo pezzo l’inchiesta giudiziaria, evidenziandone tutte le forzature. A cominciare – seguita Bolzoni – dalle indagini delegate a un piccolo commissariato di polizia (quello di Sant’Agata di Militello), nonostante la gravità dell’episodio, affidate agli stessi investigatori testimoni dell’agguato (una follia procedurale), sviluppate nell’immediatezza violando ogni regola”.
Del resto, scrive ancora il giornalista, “il procuratore di Messina Maurizio De Lucia difende un’inchiesta ‘documentatissima’, che però non ha accertato niente, il procuratore generale Vincenzo Barbaro ha confermato che l’indagine è, al momento, l’unica, incontestabile, verità”.
Ma intanto si scatena “una tempesta mediatica che esalta alcuni fatti e ne nasconde altri”. E poi un attacco alle Iene, che “nelle settimane scorse, con una scorribanda che ha veramente ben poco a che fare con il giornalismo, hanno accusato Fava di avere ‘sporcato’ l’immagine di Antoci. Il presidente dell’Antimafia ha registrato l’incontro e l’ha trasmesso alla direzione distrettuale di Catania”.
La stessa “incursione”, scrive Attilio, “l’ha subita poi anche il nostro Franco Viviano, che per primo ha raccontato il caso sulle pagine dell’Espresso. Un’altra sceneggiata”.
E poi l’ultima stoccata: “Ma perché c’è una concertazione contro tutti coloro che, anche garbatamente, avanzano dubbi sul movente e sui mandanti dell’attentato? È il mistero nel mistero. Basterebbe un’indagine più approfondita per incastrare — se sono stati loro — i boss dei Nebrodi. O magari allargare lo sguardo investigativo, cercare altrove. Siamo sicuri che è stato fatto?”.
Luciano Mirone
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