Di certo, o quasi, c’è un solo nome: Giancarlo Cancelleri del Movimento 5 Stelle. Ma i partiti tradizionali – in vista delle elezioni regionali che si svolgeranno a giugno in Sicilia – stanno scaldando i motori, malgrado la totale confusione per le candidatura alla presidenza della Regione che regna in entrambi gli schieramenti.
Nel centrodestra si fanno soprattutto due nomi, entrambi catanesi: quello di Nello Musumeci, presidente della Commissione regionale antimafia; e quello di Salvo Pogliese, parlamentare europeo.
Il primo, pur avendo lasciato un buon ricordo come presidente della Provincia di Catania perfino in qualche frangia della sinistra, non sempre all’interno della sua coalizione riesce a coagulare i consensi delle varie anime. Non dimentichiamo che nel momento in cui il suo ex partito, Alleanza nazionale, era al top, una spaccatura fra lui e l’allora leader del partito Gianfranco Fini fu causa dell’interruzione temporanea di una carriera politica all’interno del centrodestra che si annunciava in rapida ascesa. Adesso che Fini – disarcionato dal Cavaliere – è scomparso dalla scena politica, per il presidente dell’Antimafia regionale si aprono nuovi orizzonti, primo dei quali potrebbe essere rappresentato dalla candidatura alla presidenza della Regione.
Pogliese – forte dei consensi bulgari che ottiene ad ogni elezione – è considerato l’”uomo forte” del centrodestra nella parte orientale dell’Isola. Il suo problema, probabilmente, è quello di non godere di una adesione altrettanto massiccia nell’altra parte della regione.
Altri nomi che si fanno nel centrodestra sono quelli di Gianfranco Micciché, ex ministro del governo Berlusconi, e Renato Schifani, ex presidente del Senato, ma diciamo che al momento questi ultimi due nomi non appaiono accreditati come i precedenti.
Passiamo al centrosinistra. Qui la situazione è più magmatica per vari motivi. Intanto perché il governatore uscente Rosario Crocetta intende ricandidarsi, malgrado il suo partito, il Pd (o comunque la parte più consistente di esso che fa capo al segretario nazionale Matteo Renzi) consideri “fallimentare” l’esperienza alla Regione dell’ex sindaco di Gela. E poi perché altri “pezzi da novanta” della politica siciliana ambiscono a quella poltrona.
In pole position Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, ed Enzo Bianco, sindaco di Catania, entrambi fedelissimi di Renzi.
Due candidature che, a pochi mesi dal voto, non vengono ritenute sufficientemente “forti” (almeno per ora) per contrastare un M5S in flessione di consensi sia per la “questione romana”, sia per l’inchiesta firme false a Palermo e a Siracusa, ma che in passato ha dato dimostrazione di essere capace di rialzarsi nei momenti più difficili e di rilanciarsi come “forza alternativa” al sistema.
Faraone – malgrado la giovane età – non viene percepito come il personaggio “nuovo” in grado di contrastare una trimurti come il Movimento di Grillo. Stessa cosa dicasi per Bianco, a maggior ragione se si pensa che negli ultimi tempi il primo cittadino etneo è indebolito – soprattutto all’interno del suo schieramento, con la parte della sinistra più radicale che lo attacca costantemente – da varie situazioni: la clamorosa sconfitta al referendum sulla modifica della Costituzione, quando Bianco (assieme a Faraone) si è schierato decisamente per il Si; il flop del Festival dell’Unità svoltosi lo scorso autunno proprio a Catania – con Bianco nelle vesti di padrone di casa – davanti a pochi intimi; l’eccessiva vicinanza all’editore del quotidiano “La Sicilia” Mario Ciancio (accusato dai magistrati di concorso esterno in associazione mafiosa); l’atteggiamento disinvolto nell’inaugurare locali di personaggi vicini a certi ambienti.
Situazioni queste, che non lo mettono nelle condizioni migliori – malgrado la recente inaugurazione in pompa magna con Del Rio di un tratto di metropolitana – per affrontare (e vincere) una elezione fondamentale per gli equilibri nazionali.
Un altro nome – seppure in sordina – sta emergendo dall’arcipelago del centrosinistra: quello del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, autonomo dal Pd, che alle ultime amministrative ha presentato un proprio candidato alla carica di sindaco. Oggi la posizione di Orlando come sindaco sta risalendo, specie dopo la vittoria del No, per il quale il primo cittadino del capoluogo siciliano aveva dichiarato pubblicamente di votare. Malgrado le incomprensioni con molti commercianti del centro storico per l’istituzione della Ztl (Zona a traffico limitato), con la sua città Orlando ha sempre avuto un rapporto speciale fin dai tempi della Primavera palermitana (che, non dimentichiamolo, ebbe in lui e nell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, i leader indiscussi).
Che piaccia o no, Leoluca è molto amato dai suoi concittadini, al punto da essere stato eletto per ben cinque volte sullo scranno più alto di Palazzo delle aquile. Da quando, nel 2012, ha ripreso le redini del municipio – dopo il disastro dei dieci anni di Cammarata – la città sta registrando miglioramenti in diversi settori, a cominciare dal bilancio, quasi in default con il suo predecessore. Orlando stesso, prima della vittoria del No al referendum costituzionale, aveva dichiarato pubblicamente: “Se vince il No, il Pd mi verrà a cercare per la presidenza della Regione. Chiaro?”. Se si tratti di una certezza o di un desiderio, non è dato sapere. Sappiamo però che il suo nome circola, ma lui dice di volersi ricandidare a sindaco.
Chi invece potrebbe rappresentare l’asso nella manica di Matteo Renzi è la sindaca di Lampedusa, Giusy Nicolini, considerata “donna dell’anno” assieme a Paola Regeni e Lucia Annibaldi, dai lettori di “D”, il supplemento femminile di “Repubblica”. Non solo: la Nicolini è tra i finalisti del “World Mayor 2016” (il risultato sarà diffuso a gennaio) cui partecipano i quindici sindaci più popolari del mondo.
Potrebbe essere proprio lei l’arma segreta con la quale il Pd intende combattere alle prossime regionali. Per l’immaginario collettivo la Nicolini è il simbolo di quella cultura della solidarietà nei confronti dei migranti che piace tanto al Papa, in contrapposizione alla cultura dei Muri che la destra xenofoba – specie dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti – sta portando avanti. Forse non è un caso che la sindaca delle Isole Pelagie sia stata scelta da Matteo Renzi in persona a far parte della delegazione italiana recatasi nello scorso ottobre a far visita al presidente degli Stati Uniti Barack Obama. In quell’occasione la Nicolini parlò di accoglienza, un discorso che non lasciò indifferente né la Casa Bianca, né il leader italiano del Partito democratico.
Luciano Mirone
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