Il fatto accadde quattro anni fa, ma fu dimenticato subito, anzi no, non fu neanche dimenticato, fu semplicemente rimosso, archiviato, come se non fosse mai esistito. In Sicilia è così: se non ti uccidono non esisti, se nel cuore della notte danno fuoco alla tua macchina con una violenza inaudita da far pensare a un attentato, se lo fanno con una accortezza che lascia a bocca aperta perfino i carabinieri e i vigili del fuoco, alla fine può capitare, ma sì, un piccolo incidente, e poi chi lo dice che l’incendio è stato doloso (come dal primo momento è stato sostenuto dalle forze dell’ordine), e comunque nessun problema: paga l’assicurazione, quindi il fatto non c’è, non esiste, è una cazzata.
Una cazzata, certo, se il destinatario di questa “cosa” che certa Trapani non riesce neanche a definire con un nome preciso (attentato, intimidazione, banalità?, come certa Italia non è mai riuscita a definire l’omicidio di Pasolini o la morte di Pinelli) fosse un personaggio qualsiasi, ma se la vittima si chiama Salvatore Mugno, fa il Giornalista e lo Scrittore (usiamo lettere rigorosamente maiuscole, anche se lui ha deciso di cancellarsi dall’ordine dei giornalisti), ed in più è un testimone-chiave del processo per l’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, nel quale egli stesso ha avuto un ruolo fondamentale in merito alla condanna di Vincenzo Virga (ritenuto il mandante) e di Vito Mazzara (ritenuto il killer, assolto in appello), qualche domanda, alla vigilia del verdetto in Cassazione (atteso per novembre), bisognerebbe porsela.
Per esempio: se il fuoco non fosse stato domato da un vicino di casa e dallo stesso Mugno prima che arrivasse al serbatoio carico di carburante fino all’orlo, cosa sarebbe successo? Se le fiamme fossero arrivate al palazzo in cui vive lo scrittore – l’auto era posteggiata sotto – quale sarebbe stato l’epilogo?
Meglio non farsele certe domande, metabolizzare tutto, ignorare, e magari togliere il saluto alla vittima, come è successo. Non per cattiveria, ma per evitare casini. Da queste parti non si sa mai. Un po’ come era accaduto a Palermo nei fatidici anni Ottanta e Novanta, quando il problema non era la mafia, ma i magistrati che la combattevano e che quindi potevano creare problemi ai vicini di casa. Neanche lì per cattiveria.
Questo fatto succede in un’Italia dove per molto meno si diventa eroi, la stessa Italia nella quale se qualcuno osa porre qualche domanda scomoda anche su certa antimafia, viene puntualmente aggredito da chi ha bisogno di acclamare il suo feticcio.
Per Mugno non succede. E non succede perché è una persona seria, non ama la ribalta, lavora in silenzio, odia i protagonismi. Eppure, pensate, nella sentenza sul delitto Rostagno viene citato decine di volte dai magistrati, dai quali viene definito “un professore valoroso”.
In una una trentina d’anni Salvatore ha scritto circa quaranta libri, di cui una decina sulla mafia, e alcuni sul caso Rostagno. Una storia grossa, molto grossa – lo diciamo a beneficio di chi non lo sapesse o di chi ha la memoria corta – , di mafia, ma non solo. Nella quale il ruolo dei servizi segreti deviati e della massoneria è emerso chiaramente in dibattimento. E anche quello di qualche ufficiale dei carabinieri – forse fin troppo distratto – spintosi perfino a negare l’evidenza: Rostagno? Ma quando mai ha parlato di mafia? Una asserzione palesemente falsa che allora fece deragliare le indagini dalla direzione impressa dalla Polizia: omicidio di Cosa nostra.
Con umiltà e pazienza, Mugno riuscì a reperire tutti gli editoriali di Rostagno a Rtc (Radio tele cine, l’emittente per la quale lavorava), li sbobinò, li trascrisse e ne fece un libro (“Mauro Rostagno, parole contro la mafia”), preziosa fonte di prova per smentire certe singolari affermazioni e per dimostrare che il movente bisognava cercarlo nell’impegno e nella lotta quotidiana che l’ex leader di Lotta portava avanti contro i boss più pericolosi della Sicilia.
Ma per dimostrare che quello di Rostagno non era un delitto comune, ma un delitto in cui avevano preso parte diverse entità occulte impegnate nei traffici di armi collegati all’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, Mugno indagò a trecentosessanta gradi scrivendo altri libri e portando ai magistrati – compreso l’ex pm Antonio Ingroia, il primo a svelare questi intrecci perversi – altre prove.
Se dopo molti anni – il delitto si verificò nel 1988 – si è arrivati a un processo, lo si deve ad alcune persone che in questi decenni hanno svolto il loro lavoro in silenzio. Mugno è uno di questi.
Non sappiamo cosa deciderà la Cassazione a novembre. Non sappiamo neanche come finirà il processo per falsa testimonianza in cui sono coinvolti diversi soggetti importanti (qualcuno teme la prescrizione). Ma vogliamo ringraziare Salvatore per il lavoro che svolge al servizio della cultura, della verità e della giustizia. Alla faccia dell’incendio della macchina.
Luciano Mirone
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