Aveva capito tutto. E per questo lo hanno ammazzato. Beppe Alfano, il corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) de “La Sicilia” di Catania, assassinato l’8 gennaio 1993, aveva scoperto le alleanze, i segreti, le nefandezze di una Cosa nostra giovane e pronta a tutto, pur di prendere il potere. E aveva capito il ruolo di Nitto Santapaola nella strategia stragista degli anni Novanta. E anche che nella sua Barcellona non c’era più posto per quei mafiosi rozzi ma fondamentalmente paciosi che fino agli anni Ottanta si dedicavano alle estorsioni. Ormai da quelle parti perfino la mafia aveva subito una mutazione antropologica di proporzioni spaventose, lui ne era consapevole e per questo era solo. Denunciava tutto, la gente lo ascoltava, spesso lo approvava, ma alla fine votava per i soliti noti. Una volta, mentre faceva un comizio (Beppe amava l’impegno politico e prima di essere ucciso formò una lista civica), piazzarono una bomba-carta sotto il suo palco. Uno degli ultimi avvertimenti prima dell’omicidio.
Il sistema che stava cambiando non poteva permettersi gente come lui. Era un momento apicale per gli assetti di Barcellona, della Sicilia e dell’Italia: il potere del vecchio senatore democristiano Carmelo Santalco, meglio inteso come Mister Dieci Per Cento, era al tramonto. Berlusconi si preparava. I barcellonesi scalpitavano. La nuova destra a Fiuggi aveva battezzato il trapasso da Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale. Quella destra di cui Alfano aveva fatto parte, ma da cui ormai aveva preso decisamente le distanze. A cominciare da Mimmo Nania, colui che successivamente sarebbe diventato ministro, vice presidente del Senato e tanto altro.
I primi segnali erano arrivati qualche anno prima e lui, Alfano, li aveva percepiti. Il Movimento sociale italiano doveva fare la lista per le comunali. I vertici del partito avevano deciso che uno dei candidati doveva essere tale Giuseppe Gullotti detto “l’avvocaticchio”, personaggio che gravitava negli ambienti peggiori della criminalità organizzata, colui che più tardi sarebbe diventato il boss indiscusso di Barcellona. Alfano che ne conosceva vita, morte e miracoli, si oppose e ricorse addirittura al leader della destra nazionale Giorgio Almirante. Morale della favola: Gullotti fu messo in lista, Alfano fu espulso dal partito.
Ecco perché il giornalista aveva compreso che Barcellona era diventata l’epicentro di tante cose. Della strage di Capaci, come le indagini successive avrebbero appurato. Il telecomando dell’eccidio che fece a pezzi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, era stato costruito dalle parti del Longano (il torrente che attraversa la città) ed era stato consegnato proprio da Giuseppe Gullotti (proprio colui che sarebbe stato il mandante, secondo i magistrati, del delitto del giornalista) nelle mani di Giovanni Brusca in quel di San Giuseppe Jato, vicino Palermo.
Aveva saputo del ritorno a Barcellona di Rosario Pio Cattafi, testimone di nozze di Gullotti, nonché collega e amico dello stesso Beppe negli anni Settanta, quando l’organizzazione neofascista Ordine nuovo – di cui entrambi facevano parte, assieme al boss di Mistretta Pietro Rampulla, ritenuto dai magistrati l’artificiere della strage di Capaci – prendeva a sventagliate di mitra la casa dello studente di Messina, “covo dei rossi” e quindi da ripulire senza pietà.
Negli anni successivi, Beppe, pur rimanendo un uomo di destra, avrebbe preso le distanze dall’estremismo nero e avrebbe impiegato le sue energie per fare la lotta alla mafia; Cattafi e Rampulla avrebbero fatto l’opposto, anzi sarebbero stati i soggetti principali della saldatura fra Cosa nostra, ex ordinovismo, servizi segreti deviati e massoneria. Ma quel linguaggio, quell’atteggiamento, quella cifra culturale che aveva assorbito negli anni della militanza “nera”, Beppe, sarebbe riuscito a riconoscerli e a decodificarli anche a distanza di decenni.
Per questo, quando pochi mesi prima di Capaci, rivedrà Cattafi a Barcellona, reduce dagli anni milanesi – in cui aveva trovato modo di farsi coinvolgere nel delitto del giudice torinese Bruno Caccia, nella maxi tangente socialista dell’autoparco di via Salomone, e nel riciclaggio dei denari sporchi dei casinò per conto dal clan Santapola – con estrema meraviglia confidò alla figlia Sonia: “E questo che ci fa a Barcellona? Se è tornato è sicuramente per qualcosa di grosso”.
Visionario Alfano? Non lo sappiamo. Sappiamo però che pochi mesi dopo Falcone morirà. Non esiste un collegamento fra la frase di Alfano e la morte del magistrato, fatto sta che Saro Cattafi sarà messo sotto inchiesta dai magistrati come mandante esterno della strage, assieme a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri. Per poco tempo. Poi la sua posizione sarà archiviata, assieme a quella degli altri due.
E però i magistrati di Messina poco dopo lo definiranno “socialmente pericoloso” obbligandolo a soggiornare a Barcellona per cinque anni. Niente paura. Ogni mattina il nuovo sindaco Candeloro Nania, cugino di Mimmo, ed esponente di punta della nouvelle vague della politica barcellonese (zeppa di consiglieri comunali collusi, secondo i commissari prefettizi mandati a Barcellona) gli mandava la macchina del comune con tanto di autista. Tanto per farlo sentire meno solo.
Anche se certe cose non le ha potute vedere, Beppe Alfano sapeva che sarebbe finita così. Le stragi senza mandanti occulti. Mafia e Stato che si appattano tramite una trattativa. Marcello Dell’Utri capo del partito più importante del Paese. Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. Quindi era logico che in quella fredda sera dell’8 gennaio 1993, con una pistola calibro 22, lo facessero fuori.
Ed era logico che dopo la sua morte, le centrali del potere cominciassero a far ritmare quel terribile tam tam pieno di squallidi messaggi finalizzati a denigrarne la figura. Del resto, era stato ucciso con una “rivoltella da donna”, un-delitto-passionale-fu. Come per Giuseppe Fava.
Beppe Alfano aveva capito tanto. Ai tasselli che stava pazientemente raccogliendo per comporre il mosaico, ne aveva aggiunto un altro: aveva scoperto che Santapaola stava trascorrendo un pezzo della sua latitanza proprio a Barcellona, protetto da personaggi insospettabili, che lui, se avesse trovato le prove, avrebbe nominato. Magari non nel giornale catanese di Ciancio, dove aveva fatto i suoi scoop su storie di corruzioni, ma dove in quegli anni il nome di Santapaola non doveva assolutamente comparire. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, dopo l’assassinio di Beppe, a cadavere ancora “caldo”, “L’espresso sera”, il giornale del pomeriggio dello stesso gruppo editoriale, fece questo titolo in prima pagina: “Siamo sicuri che a ucciderlo sia stata la mafia?”. Già, ne siamo sicuri? Gli stessi messaggi che circolavano in certi salotti.
Sarebbe stata questione di tempo e Alfano molti nomi li avrebbe fatti. Avrebbe svelato i segreti del circolo più esclusivo di Barcellona, la Corda fratres, dove convivevano tranquillamente mafiosi e Colletti bianchi.
Dopo la sua morte, di fatti gravissimi ne sono avvenuti a Barcellona. Tre su tutti. La latitanza in quella città di un altro boss di Stato come Bernardo Provenzano. La morte del giovane urologo Attilio Manca, fatto passare per suicida, perché coinvolto – secondo quanto dicono i pentiti – nell’operazione di cancro alla prostata dello stesso Provenzano a Marsiglia. Il suicidio del docente universitario Adolfo Parmaliana.
Storie che Alfano non ha conosciuto, ma che si inseriscono in un contesto che lui sapeva decifrare e definire benissimo. Ecco perché “doveva morire”. Un po’ come era successo nove anni prima a Catania con Pippo Fava. Doveva morire. Sennò il potere non avrebbe potuto depredare la città. Barcellona come Catania.
Luciano Mirone
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