Ci sono storie, in questo Paese, che restano nell’ombra (come dice Roberto Saviano), perché non si conoscono e quindi non esistono. Eppure costituiscono delle chiavi di lettura straordinarie che ci consentono di capire quanto esso sia malato, e fino a che punto sia privato della sua libertà di espressione, come negli stati totalitari.
Perché ci sono posti, in Italia, dove la differenza con gli Stati dove si spara ai dissidenti non è poi così tanta: lì a sparare è la “polizia ufficiale”, qui quella “ufficiosa”: in Sicilia i dissidenti uccisi finora sono otto, in Campania uno, ma da qualche anno si è capito che ci sono metodi molto meno “spettacolari”, ma sempre persuasivi per ottenere il silenzio: la minaccia o l’intervento “diplomatico” presso l’amico – direttore o editore non ha importanza – che comanda al giornale. Di queste storie, il nostro Paese, è pieno.
La storia di Enzo Palmesano, giornalista professionista di Pignataro Maggiore, in provincia di Caserta, non è la storia triste di un giornalista ammazzato fisicamente, ma la storia emblematica di un ottimo giornalista ammazzato nello spirito, nella professione e nell’anima, perché un giorno il boss della camorra Vincenzo Lubrano, legato alla mafia corleonese attraverso il clan dei Nuvoletta, chiama il direttore del Corriere di Caserta (poi Cronache di Caserta) e gli dice: “Questo giornalista ha scassato il cazzo, non deve più scrivere”. Sissignore. Palmesano viene licenziato seduta stante.
Ad ordinarlo non è l’editore, sentitosi mancare di rispetto perché Palmesano gli ha detto una parolaccia o non si è attenuto al codice deontologico o magari ha scritto delle cazzate sul suo giornale, no, a decretare la fine dell’esperienza di Enzo al Corriere di Caserta è il capo camorra della zona, al quale non si può dire assolutamente di no. E non è detto che non si possa dire di no solo perché ti può ammazzare: fra il bianco e il nero esistono tante sfumature di grigio che in terra di camorra (praticamente in tutto il Sud, e ormai non solo) conviene scegliere. Non per salvarti la pelle, ma semplicemente per vivere bene.
Ecco allora che lo stesso giornale – non l’unico, purtroppo – tiri fuori certi titoli per compiacere il capobastone di turno: memorabili quelli contro don Peppe Diana, ucciso per il suo grande impegno e infangato dopo la morte. E’ un giornalismo becero, che ricorda quello di certi quotidiani siciliani, specializzati nel cercare di far passare messaggi micidiali contro valorosi giornalisti come Giuseppe Fava e Beppe Alfano. Con la differenza che il giornalismo “made in Sicily” è riuscito ad avere qualche mente un po’ meno rozza nel calibrare titoli e pezzi. Il giornalismo campano – o meglio: “quel” giornalismo – ha uno stile più sbracato, più spericolato, senza pudore.
La storia di Palmesano è descritta punto per punto dai pubblici ministeri Conzo ed Esposito della Dda di Napoli, nell’ambito dell’operazione anti camorra denominata Caleno, sancita in primo grado e in appello, ma è una storia difficile da raccontare (a farlo, da par suo, solo Roberto Saviano e pochi altri): manca il morto ammazzato, e questo in un Paese dove il sensazionalismo è tutto, rischia di scivolare nell’invisibilità del quotidiano e nell’inesistenza della storia. Non è la punta. È l’iceberg. La vicenda di Palmesano è solo la metafora di questo immenso blocco di ghiaccio sommerso nel mare dell’Italia putrescente.
E’ una riuscitissima “operazione chirurgica” – per usare una metafora – eseguita in laparoscopia, al posto di quegli scassatissimi interventi fatti col bisturi, che un tempo rischiavano di provocare danni collaterali perfino al medico che le eseguiva.
Ho avuto la fortuna di conoscere Enzo Palmesano all’inizio del Duemila in terra campana, quando mi invitò a presentare Gli insabbiati, il libro sui giornalisti siciliani uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza. Fu lui, da solo, ad organizzare (e a pagare le spese di aereo, di vitto e alloggio) la due-giorni che si svolse fra l’Istituto degli studi filosofici di Napoli (dove Enzo invitò Paolo Siani, fratello di Giancarlo, cronista del “Mattino” ucciso negli anni Ottanta dalla camorra, e uno stuolo di giornalisti coraggiosi che quel pomeriggio parlarono senza mezzi termini dei rapporti fra giornalismo e camorra), Casal di Principe, Cipriano d’Aversa e Pignataro Maggiore, tre fra i centri più violenti di quella regione, paesini in provincia di Caserta distanti pochi chilometri l’uno dall’altro.
Chi vive nei luoghi “normali” dell’Italia non può capire cosa vuol dire presentarsi in una scuola, davanti a centinaia di ragazzi, con uno dei magistrati più impegnati nella lotta alle ecomafie – l’allora pm di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie – , e sfidare a viso aperto i boss, snocciolando fatti, numeri, morti ammazzati, attentati, sversamenti di rifiuti tossici, inquinamento delle falde acquifere e dell’aria, senza urtare la suscettibilità di qualcuno che due giorni dopo pensò di incendiare la macchina della preside, che aveva avuto l’ardire di parlare di camorra e di mafia in una terra simile all’Emilia al tempo di Mussolini.
E il giorno dopo, a Pignataro Maggiore, il libro si presentò nel salone parrocchiale, con Enzo che orgogliosamente parlava della “Svizzera della camorra” alla sua gente, mentre i boss avevano già decretato come operare questa “escrescenza tumorale del giornalismo antimafia”.
Due giorni molto istruttivi e piacevoli, in cui, grazie a Palmesano, mi feci una cultura di quelle zone che, qualche anno dopo, sarebbero state battezzate “le terre dei fuochi”. Fui assalito dalla malinconia nel vedere (mentre lui, con la sua auto, mi portava da un posto a un altro) quel paesaggio bellissimo di una Campania un tempo felice, devastato da un esercito di selvaggi assetati di sangue e di denaro.
E la sera, in pizzeria, Enzo mi parlò di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso poco tempo prima per il suo impegno anti camorra, questo prete semplice e sorridente che aveva molti tratti in comune con don Pino Puglisi nel parlare di amore anche quando si parla di boss.
A un certo punto mi disse: “Li vedi quelli?”. Erano dei ragazzotti, seduti nel tavolo di fronte, dai modi truci e violenti. Mi parlò delle “gesta” dei loro padri camorristi, e fu osservando quegli adolescenti che ebbi la conferma di quello che pensavo da alcuni anni: del cambiamento epocale che c’è stato del nostro Paese. Fu quello slang di ragazzi incattiviti ad avvalorare la mia intuizione. Pasolini l’avrebbe chiamata “la mutazione antropologica”: lui era morto nel 1975 (anche lui ammazzato) e non aveva visto l’orrore che sarebbe successo dopo: l’annientamento di una cultura da sempre esistito anche in quelle terre: la gentilezza, l’educazione, il rispetto, prerogative che sicuramente possedevano i nonni o i bisnonni di quei ragazzi che urlavano parole disarticolate e incomprensibili, a prescindere dallo status di camorristi o di persone perbene.
Loro invece parlavano solo di soldi, di moto e di macchine. E lo facevano con una volgarità che neanche in Sicilia – quelle volte in cui mi è successo di conoscere figli di mafiosi – mi è mai capitato di vedere o di sentire.
“In questi posti hanno trascorso una parte della loro latitanza Totò Riina e Bernardo Provenzano”, mi disse Enzo. “Nessuno li ha disturbati”. Come in Sicilia, del resto. Tanta acqua sarebbe passata sotto i ponti per la loro cattura.
Poi il discorso scivolò sulla politica. Lui era stato missino, da pochi anni approdato in Alleanza nazionale. Nel suo ambiente, con fare stizzito, lo definivano “il fascista di sinistra”. E un motivo c’era: parlava bene degli ebrei e male di Berlusconi e di molti personaggi di destra. Infatti la sua carriera politica non è arrivata in alto. E però – in quei due giorni – capii che c’è modo e modo di stare a destra: meglio un Palmesano onesto che cento cialtroni di sinistra. Mi accompagnò all’aeroporto di Napoli e ci abbracciammo.
Luciano Mirone
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Oggi Enzo Palmesano scrive una lettera aperta al presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, dott. Carlo Verna, che riproponiamo. Questo il testo:
“Gentile Presidente,
allego due sentenze relative alla mia vicenda di giornalista professionista vittima di reato di tipo mafioso: quella di primo grado del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e quella – irrevocabile dal 30 luglio 2018 – della Corte d’Appello di Napoli.
Come è noto, il quotidiano locale “Corriere di Caserta” (all’epoca, direttore responsabile Gianluigi Guarino) pose fine alla mia collaborazione a seguito delle pressioni del capomafia di Pignataro Maggiore, Vincenzo Lubrano, che utilizzò quale suo messaggero un nipote acquisito, Francesco Cascella, un militare attivo pure nel mondo giornalistico. Morto nel frattempo Vincenzo Lubrano, è stato condannato in via definitiva Francesco Cascella per violenza privata con l’aggravante camorristica ai miei danni. Un storia che ha avuto vasta eco nell’opinione pubblica anche grazie agli articoli, due qui allegati, dello scrittore di “Gomorra”, Roberto Saviano.
Nelle carte del processo – e, ancor prima, dell’inchiesta denominata “Operazione Caleno” (stralcio anch’esso allegato) della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Sostituti procuratori dott. Giovanni Conzo e dott.ssa Liana Esposito – è emersa in tutta la sua gravità la campagna della camorra per isolarmi e quindi farmi il vuoto intorno nel tentativo di ridurmi al silenzio, trovando complicità anche negli ambienti giornalistici. Inoltre, lo stesso clan Lubrano-Ligato (in particolare il boss Pietro Ligato) fece cacciare uno dei miei figli da una ditta edile per la quale lavorava. Insomma, intorno a me è stata fatta terra bruciata.
Nelle intercettazioni ambientali a carico del capomafia Vincenzo Lubrano è cristallizzata pure una discussione sulla possibilità di farmi fare la fine di Giancarlo Siani, assassinato dalla cosca Nuvoletta di Marano di Napoli. Vincenzo Lubrano (condannato, con Pipo Calò, per l’omicidio Imposimato) era il consuocero di Lorenzo Nuvoletta e un alleato di ferro dei “corleonesi” di Totò Riina. A Pignataro Maggiore, famigerato paese tristemente conosciuto quale “Svizzera della camorra”, esiste un grave e attuale pericolo per i giornalisti, esposti alle ritorsioni dei clan e alle cospirazioni orchestrate nel paludoso mondo dove si intrecciano – tutti assieme – interessi mafiosi, imprenditoriali, massonici e cosiddetti politici.
Ti chiedo di valutare se la mia vicenda – per la quale ha pagato un prezzo tremendo anche la mia incolpevole famiglia – ha la dignità per una presa di posizione (seppure tardiva) dell’Ordine nazionale dei giornalisti.
Ti ringrazio dell’attenzione e resto in attesa di una tua risposta.
Cordiali saluti.
dott. Vincenzo Palmesano
giornalista professionista vittima di reato di tipo mafioso
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