Una mafia silente, sommersa ed eversiva, abituata a fare soldi, tanti soldi, con le estorsioni e col traffico di stupefacenti, ma soprattutto a tenere i riflettori spenti sulle campagne sterminate e misteriose del centro della Sicilia per decidere le stragi di Capaci e di via D’Amelio, per ospitare boss di Stato come Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nitto Santapaola, per conservare l’esplosivo che sarebbe servito a fare a pezzi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per portare avanti un progetto politico perverso che avrebbe piazzato i boss più importanti al centro delle istituzioni.
È la Cosa nostra della provincia di Enna, descritta in 160 pagine dal giornalista Josè Trovato nel suo ultimo libro “Mafia 2.0” (Associazione Officina editore), con un sottotitolo eloquente: “… nel cuore della Sicilia comandano iene, sciacalli e i maggiordomi di Totò Riina”, per indicare che oggi, a dettare legge ai vertici dell’organizzazione ennese, sono le seconde file dei generali, la soldataglia, i vivandieri, i camerieri che agli inizi degli anni Novanta servivano e riverivano i loro capi presidiando il territorio e portando cibo, medicine, lenzuola, coperte, materassi, armi e tanto altro nelle masserie dell’ennese adibite a covi segreti dei loro mammasantissima.
Nel libro si fanno nomi di boss assolutamente sconosciuti per chi vive fuori provincia, si citano paesi lontani e arcani come Pietraperzia, Leonforte, Barrafranca (il primo comune dell’ennese – in queste pagine se ne parla – sciolto per infiltrazioni mafiose), si raccontano esperienze positive come l’impegno delle associazioni antiracket e si parla degli inquirenti di alto valore morale e professionale che, nel corso degli anni, hanno contribuito a portare in carcere molti boss (significativo il fatto che a curare la prefazione sia David Salvucci, un magistrato).
“Manca l’ultimo colpo – dice Trovato – per dare scacco matto alla mafia di questa provincia: la mobilitazione della società civile”, ovvero l’impegno civile, la rottura dell’indifferenza, la cultura.
Il volume, uscito alla fine di luglio, è stato presentato ieri sera al cinema Urania di Regalbuto (Enna) dall’autore, dal sindaco Francesco Bivona e dal direttore de L’Informazione Luciano Mirone, e ha visto la partecipazione dei vertici delle Forze dell’ordine e delle associazioni antiracket, oltre a quella dell’assessore alla Cultura Medea Ferrigno che ha organizzato l’evento.
Una mafia sconosciuta, ma di importanza strategica perché – scrive Trovato – “Riina, Provenzano, Madonia e Santapaola, dall’agosto ’91 agli inizi del ’92, si trattennero nella zona di Enna per discutere di un progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati: Nord, Centro e Sud”.
“In tal modo – seguita il cronista minacciato da Cosa nostra nel 2009, al punto da essere stato vigilato dalle Forze dell’ordine – Cosa nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria e aveva anche l’appoggio di potenze straniere”.
“Era stata stanziata – spiega Trovato – la cifra di mille miliardi. Coinvolti non solo esponenti della criminalità mafiosa e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e delle forze imprenditoriali”.
Un libro che è un pugno nello stomaco (come lo sono stati i due precedenti: “La mafia in provincia di Enna. Una storia negata” e “Mafia balorda”) e che dovrebbe essere letto non solo in questa provincia, ma in tutta Italia, perché racconta, attraverso atti giudiziari e testimonianze autorevoli, diversi retroscena inediti non solo sull’ala militare di Cosa nostra, ma su un pezzo di classe politica siciliana e nazionale.
Al centro – si legge nelle pagine dell’ex cronista del Giornale di Sicilia, oggi direttore della testata online EnnaOra e collaboratore di Livesicilia e Italpress – l’avvocato Raffaele Bevilacqua, colui che, secondo quanto si apprende da questo volume, è stato e proclamato da Provenzano – tramite un pizzino – “capo provinciale di Cosa nostra”.
Un legale raffinato e preparato, oggi all’ergastolo, al quale l’autore dedica una lettera da pagina 19 a pagina 40, piena di indignazione e di ironia: “Raffaele Bevilacqua da Barrafranca. Già avvocato penalista, già politico della Dc, già consigliere provinciale… Ti scrivo perché c’è una domanda che mi pongo da tempo: perché? Cosa ti ha spinto a fare ciò che hai fatto? Cosa spinge un uomo stimato, un padre di famiglia, un avvocato penalista tra i più conosciuti per essere tra i migliori di quegli anni, una persona impegnata in politica, a pensare di far carriera dentro cosa nostra?”.
E poi: “Che insegnamento lascia la storia di Raffaele Bevilacqua alle generazioni future? Cosa vorresti che la gente ricordasse di te, un giorno lontano, quando non ci sarai più?”. Già, cosa?
Redazione
Gentile Josè Trovato,
Lei scrive:
“Manca l’ultimo colpo – dice Trovato – per dare scacco matto alla mafia di questa provincia: la mobilitazione della società civile”, ovvero l’impegno civile, la rottura dell’indifferenza, la cultura.
Ed ecco come la penso io sull’argomento così cruciale:
La mafia esiste da 150 anni e sono sicuro che la parte del codice civile e penale sul capitolo della “testimonianza” sia stata creata da magistrati e politici mafiosi, i quali, per essere sicuri che nessuno facesse la spia, hanno obbligato, per legge, il testimone di giustizia a presentarsi in tribunale per dare testimonianza (con tutte le conseguenze che conosciamo).
Il cittadino comune, che vede o sa qualcosa di penalmente rilevante, fa questo ragionamento: “Perché mi devo intromettere e finire in tribunale; perché correre brutti rischi di minacce, ricatti o di venire ucciso io o la mia famiglia?” Ed è proprio sull’omertà che fanno leva i delinquenti. I commercianti, poi, per paura che la propria attività sia distrutta, pagano regolarmente il “pizzo” e se si ribellano è la loro fine. Per denunciare i mafiosi, il cittadino onesto, che sa qualcosa o l’imprenditore che è oggetto di attentati, minacce, estorsioni e ricatti dovrebbe essere tutelato, ma lo Stato, non solo non è capace di proteggere i testimoni di giustizia, ma crea soltanto dei morti viventi.
Ci vuole, pertanto una rivoluzione culturale capace di assicurare alla giustizia e contrastare efficacemente non solo la mafia, la camorra o l ‘ndrangheta, ma tutte le altre criminalità organizzate come narcotraffico, tratta di esseri umani, riciclaggio, appalti pubblici truccati, misure di prevenzione patrimoniali, ecomafie, contraffazione di marchi, operazioni finanziarie sospette, organizzazioni criminali straniere, traffico di reperti archeologici e d’arte, i casi di corruzione (che è una vera piaga), per non parlare di finti ciechi e invalidi, truffe e di alti tenori di vita, dei bracconieri, dei rimborsi di incidenti stradali fasulli o dei tanti delitti impuniti.
Per ottenere questi risultati straordinari bastano queste tre precise norme:
1° Garanzia assoluta dell’anonimato per quanti avessero segnalato fatti delittuosi. A chi telefona, la polizia non deve chiedere le generalità dell’informatore, ma è la polizia che attribuisce al collaboratore un nome in codice o di fantasia, con il quale richiamare per altre segnalazioni o per garantirsi uno sconto di pena. (*) (nel caso di mafiosi che si dissociano o l’immunità nel caso di familiari di mafiosi che vogliono dissociarsi).
2° Non si eseguono arresti, né spiccare ordini di cattura soltanto sulla base di una denuncia anonima; La polizia si deve servire dell’informazione unicamente per l’individuazione del responsabile del reato.
3° La polizia, da sola,metterà in atto tutti gli strumenti necessari (intercettazioni, appostamenti telecamere e microspie ecc.) e si procurerà da sola le prove da portare in tribunale.
Si potrà obbiettare che ci sarà sempre quello che, dietro l’anonimato, comunichi delle informazioni fasulle, ma è importante che al centralino ci siano persone capaci di vagliare le telefonate.
Se poi, chi denuncia è un mafioso che ha deciso di cambiar vita nonostante il patto di sangue che lo lega alla mafia, anche lui deve finire nella retata della polizia. (*) Il Tribunale lo condannerà lo stesso come tutti gli altri, ma, con la buona condotta, presto sarà libero grazie al nome in codice ricevuto dalla polizia, che lui stesso riferirà, a conferma della sua volontà di dissociarsi dalla mafia.
Questi sono i tre punti che garantiscono le libertà civili del cittadino. La cosa più importante è che questa iniziativa offre veramente ai cittadini l’opportunità di aiutare la polizia senza esporli al rischio di rimanere coinvolti o di essere bollati come spie. La Polizia si impegna, è vero, ma senza la collaborazione dei cittadini non si andrà mai da nessuna parte.
Noi cittadini onesti abbiamo fame di giustizia e desideriamo vivere tranquilli; si creerà un circuito virtuoso non appena, a condanna avvenuta, apparirà sui giornali e canali TV la notizia che quel delinquente è stato assicurato alla giustizia “grazie alla collaborazione dei cittadini”
Una trasmissione televisiva di qualche tempo fa sui “testimoni di giustizia” mi ha riempito di rabbia: quante vite spezzate, quanti disagi e quanti soldi dello Stato sprecati nel tentativo, fino ad oggi vano, di proteggere (?) questi eroi che, per aver fatto il proprio dovere, si trovano sotto terra o sono vivi, ma morti che camminano senza identità, isolati da tutti e senza mezzi di sussistenza e comunque stanno peggio dei mafiosi in galera. La trasmissione, per me diseducativa, è andata in onda solo per far capire ai cittadini che è molto meglio non denunciare perché se lo fanno, hanno finito di vivere.
Lo Stato spende milioni di euro all’anno per garantire l’incolumità ai collaboratori di giustizia senza riuscirci ed oggi, con la crisi, lo Stato non può più permetterselo.
Questa mafia è una cancrena che lo Stato non riuscirà mai a debellare perché centinaia, che dico, migliaia sono affiliati alle cosche e quantunque si riempissero le patrie galere, quei pochi rimasti si clonerebbero in breve tempo perché hanno capito che la loro è una società che può facilmente avere proseliti, giacché dà loro lo stipendio mensile sicuro, mentre affossano l’economia nazionale. E cosa dire del terribile disastro dei rifiuti tossici seppelliti nelle campagne che hanno prodotto tumori e morti e avvelenato le falde acquifere. Questo non sarebbe successo se chi aveva visto, e molti avevano visto, e per paura (con ragione), non hanno potuto parlare. Quante persone scomparse, di cui si è persa traccia, che la polizia è stata costretta ad archiviare le indagini.
Questa innovazione se da un lato farà aumentare il numero dei condannati, alla lunga le carceri si svuoteranno, perché chi ha intenzione di delinquere può star certo che non se la passerà liscia, perché c’è sempre qualcuno che ha visto, ha sentito e ha parlato.
Il cittadino è stanco di considerarsi complice di assassini, corruttori, ladri, mafiosi, spacciatori di droga, stupratori,. Deve finire il ragionamento “perché mi devo intromettere; meglio evitare seccature e tribunali che correre brutti rischi di minacce, ricatti o di venire ucciso io o la mia famiglia? Ed è proprio sull’omertà che fanno leva i delinquenti