Quando se ne va una persona come Letizia Battaglia diventiamo tutti un po’ più poveri. Non solo perché se ne va una persona che con le sue meravigliose foto (più profonde di un editoriale) ha sbalordito il mondo, ma perché se ne va un’intellettuale vera, una persona libera, una persona capace di prendere (sempre) una posizione a prescindere dalla direzione del vento. Se ne va una persona bella.

Di solito non amo le commemorazioni, preferisco far parlare il silenzio, molto meno retorico e scontato di tanti discorsi, ma per Letizia vale fare un’eccezione, per i suoi contributi offerti con grande generosità alle cause giuste, a cominciare da quella intrapresa col movimento antimafia (quello vero, serio, autentico e scevro dal “professionismo” e dal “carrierismo” degli anni successivi) e con la “Primavera palermitana”, quando Letizia, dopo anni d’impegno con il giornale L’Ora, divenne un salto punto di riferimento della giunta Orlando come rappresentante della Società civile.

Letizia Battaglia mentre scatta una foto a Palermo. Sopra: la fotoreporter

Quella giunta che cacciò da Palazzo delle Aquile i seguaci di Lima, di Ciancimino e di Andreotti e fece l’alleanza coi comunisti di La Torre e di Berlinguer. Allora – il Muro di Berlino doveva ancora crollare – stare coi “rossi” era una bestemmia, ma i “rossi” di Berlinguer e di La Torre erano un’altra cosa rispetto ai “rossi” di Mosca. Erano quelli della Resistenza, della rottura con l’Unione sovietica, della lotta alla mafia, della battaglia pacifista contro i missili di Comiso, della “questione morale”, quelli che in un’Italia intossicata dalla corruzione e dalle collusioni stavano decisamente dall’altra parte.

I primi a capirlo – alcuni anni prima – erano stati Aldo Moro e Piersanti Mattarella, uno a livello nazionale, l’altro a livello regionale (ma la Sicilia, in quegli anni di Guerra fredda, per la sua posizione geo-strategica al centro del Mediterraneo, contava più di Roma): morirono entrambi ammazzati. A decretarne la morte, quelle entità che troviamo sempre dietro alle stragi e ai delitti più efferati del dopoguerra: mafia, servizi segreti deviati, P2, Gladio, con la parte più reazionaria degli Stati Uniti tutt’altro che estranea a questi complotti.

Letizia intuì il gioco e si schierò in prima linea assieme a Leoluca Orlando, che lei ammirava e stimava tanto. Capì che per cambiare l’Italia bisognava cambiare la Sicilia e per cambiare la Sicilia bisognava partire dalla cultura. E allora – parallelamente al suo ruolo di assessore – si mise a fare riviste, case editrici, dibattiti, convegni e tanto altro.   

La prima immagine è quella della sala del Consiglio comunale a Palazzo delle Aquile (sede del municipio di Palermo), dopo un incontro sul ruolo della Primavera palermitana nell’Italia di quegli anni. Seguivo da lontano le sue battaglie, di presenza non l’avevo mai vista, eppure era come se la conoscessi da sempre: uno sguardo, un sorriso, poche parole e all’improvviso un abbraccio interminabile carico di dolcezza, di rabbia, di speranza e di bellezza. Fu l’inizio di una amicizia vera, fatta di incontri sporadici ma intensi, travolgenti anche, nei quali si parlava di politica, di mafia e ogni tanto di amori giovanili.

Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio mi venne in mente di fare un libro sulla storia delle donne sindaco in Sicilia. Ne parlai con lei. L’idea la entusiasmò: “Se vuoi possiamo pubblicarlo con la mia casa editrice”. La casa editrice si chiamava Edizioni della Battaglia e pubblicava molti testi di autori anche famosi.

Per una serie di circostanze, il libro uscì con un altro editore. “E ora cosa dico a Letizia?”. Era il mio cruccio, il mio tarlo per averla “tradita”, senza avergliene neanche parlato. Confidavo questa cosa agli amici comuni: “E ora con quale faccia mi presento a Letizia?”.

Un giorno, a un convegno della Rete, la incontrai. Quando mi vide sorrise. “Letizia, sono mortificato con te”. “Con me? E perché?”. Mi rivolgeva quelle domande con l’ingenuità della ragazzina che non immagina minimamente cosa vuoi dirle. “Letizia, poi quel libro l’ho pubblicato”. “Lo so, e sono contenta, sta avendo un bel successo. Bravo!”. “Sì, ma non lo abbiamo pubblicato insieme”. “E sei mortificato per questo?”. Si mise e ridere. “La mia casa editrice dà la possibilità a certi autori di pubblicare i loro libri quando vengono censurati. Tu l’editore l’hai trovato ed io sono felice”. Era questa Letizia Battaglia.

Dopo qualche tempo la incontrai al festival del giornalismo di inchiesta di Pordenone, eravamo stati invitati assieme a Roberto Scarpinato, Saverio Lodato, Attilio Bolzoni, Domenico Iannacone a parlare dei nostri ultimi libri. Al ristorante fu la solita festa, resa più gioiosa dal vino friulano. Raccontammo aneddoti e storie di certi personaggi pazzeschi incontrati durante la nostra vita, ci lasciammo andare perfino a qualche pettegolezzo, cosa che ogni tanto, specialmente a tavola, non guasta. Dopo un po’ le chiedemmo: “Letizia, domani mattina che fai?”. “Domani per me sarà un giorno sacro: andrò a visitare la tomba di Pasolini a Casarsa del Friuli”.

Luciano Mirone