Coraggio ragazzi, ora che l’abbiamo sconfitta, possiamo dirlo: la mafia è quell’organizzazione di bontemponi che ormai si è ridotta a fare un po’ di estorsioni e qualche usura, che lo Stato (dategli tempo!) debellerà senza pietà, magari col concorso decisivo di Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia; di Totò Cuffaro, fondatore e leader della nuova Democrazia cristiana; di svariati personaggi della Lega; e la “partecipazione straordinaria” di qualche leader politico che in casi del genere non manca mai.
Ora che Cosa nostra “non esiste più”, non importa che Dell’Utri e Cuffaro siano stati condannati con sentenza definitiva per mafia, che la Lega sia implicata (al Nord come al Sud) in “gravissime collusioni”; che certi leader politici, benché assolti dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, abbiano legami provati con certi personaggi.
Non importa tutto questo, perché il messaggio, a trent’anni dalle stragi, è passato: i boss sono stati arrestati e condannati, lo Stato ha vinto, le mafie si occupano di cazzate, tutti siamo più felici e ogni 23 maggio possiamo scrivere sui Social che “la mafia fa schifo,”, con tanto di foto di Falcone e Borsellino.
Adesso i “bravi ragazzi” di cui sopra potranno partecipare “indirettamente” (termine micidiale) a tutte le elezioni che vogliono, a cominciare da quelle di Palermo di giugno e dalle regionali di novembre. Dell’Utri e Cuffaro, dopo essersi fatti sette anni di carcere, possono tornare a testa alta: il loro conto con la giustizia lo hanno pagato e quindi è giusto che si rimettano a fare politica come e più di prima.
La forma è salva. Ma in politica la forma “è” sostanza. Lo spiegava trent’anni fa Paolo Borsellino: “C’è un equivoco di fondo – affermava il magistrato trucidato in via D’Amelio – . Si dice che il politico che ha avuto frequentazioni mafiose, se non viene giudicato colpevole dalla magistratura, è un uomo onesto. No! La magistratura può fare solo accertamenti di carattere giudiziale. Le istituzioni hanno il dovere di estromettere gli uomini politici vicini alla mafia, per essere oneste e apparire tali”.
Parole dimenticate. Basta leggere o ascoltare certi discorsi del nuovo candidato a sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, il possibile vincitore, colui che dovrà sostituire nientemeno che Leoluca Orlando. Secondo Lagalla (fino a pochi mesi fa, assessore alla Pubblica istruzione del governo regionale di Nello Musumeci), le stigmatizzazioni arrivate da più parti per le sue discutibili alleanze, sono frutto di “odio della solita antimafia parolaia che non ha altri argomenti da porre”. Negli anni Ottanta si dicevano esattamente le stesse cose.
L’argomento è stato appena sfiorato in questi giorni di commemorazioni e di lacrime. Qualcuno ha accennato qualcosa (Fiammetta Borsellino, Lirio Abate e qualche altro), ma è stato sommerso dal mare della retorica dei brunovespa di turno.
Non facciamoci illusioni. I vecchi boss sono finiti in galera, ma la mafia è più viva e più forte che mai: le giovani leve di Cosa nostra (a proposito, che fine ha fatto Matteo Messina Denaro?), della ‘ndrangheta, della camorra, della Sacra corona unita sono fuori dal carcere e operano indisturbati, le organizzazioni criminali allungano i loro tentacoli in Lombardia, in Germania e in tutto il mondo, la mentalità mafiosa è quella di trent’anni fa, sia nelle teste di certa politica, sia nelle nostre (lo vedremo alle elezioni).
Fino a quando ci limiteremo a piangere i morti, fino a quando non parleremo dei vivi, fino a quando continueremo a pensare che la mafia sia “solo” un problema delle forze dell’ordine e della magistratura, fino a quando presteremo la nostra faccia a una politica impresentabile e la voteremo, fino a quando non prenderemo una posizione, non potremo parlare di sconfitta della mafia perché la mafia siamo noi.
Ecco perché, a trent’anni dalle stragi, questo giornale ha partecipato poco al coro degli “addolorati” che creano il santo e poi se lo portano in processione facendo pure finta di piangere. Ed ha deciso di uscire con questo articolo il 24 maggio, giorno successivo all’anniversario.
Detestiamo i furbi, quelli che usano l’antimafia una volta l’anno, come fanno col 25 aprile. Per noi la lotta alla mafia e la lotta partigiana non è una tantum. È la vita.
Nella foto: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Luciano Mirone
Caro Luciano la magistratura ha le sue gravi responsabilità e pertanto non può nascondersi dietro le foglie di fico dei magistrati uccisi dalla Mafia. Però permettimi di dire che i politici sono l’espressione della comunità che li elegge. Come diceva Falcone, ma è un’osservazione alla portata di tutti, la Mafia è un fenomeno umano. Ha un suo inizio ed una sua fine. Quindi, il fenomeno umano che l’ha vista nascere consolidarsi, espandersi e morire (quando sarà) dipenderà dal livello di civiltà che raggiungeranno i siciliana in quanto il fenomeno mafioso che ho conosciuto nei miei anni in Sicilia è tutto dovuto a comportamenti locali tramandati da una generazione all’altra che potranno cambiare in meglio solo se le nuove generazioni accetteranno valori di civiltà che spesso le generazioni che ci hanno preceduto non avevano e non hanno. Constato però che ancor oggi resta nella società siciliana ed è evidente nelle istituzioni pubbliche come gli enti comunali e regionali un bagaglio di comportamenti protomafiosi che rendono la vita sociale, ed economica, professionale lungi dal contribuire alla scomparsa della mafia. Qualcuno si offenderà come ha scritto il dott. Brugaletta, magistrato, ma è la realtà e nessuno è unto dal signore o figlio di un Dio maggiore, come credono di essere gli impiegati dello Stato alle dipendenze del Ministero della Giustizia, dell’Interno, dell’Istruzione, della Pubblica Amministrazione, che hanno enormi responsabilità e si credono al di sopra dei normali cittadini pur essendo spesso al di sotto della qualità media, umanamente e professionalmente.