La notizia dell’applicazione della legge Bacchelli per riconoscere una pensione da giornalista a Riccardo Orioles è la notizia più bella degli ultimi tempi. Un abbraccio al giornalista Luca Salici che ha promosso la raccolta delle firme e si è battuto, più di tutti, per il nostro Maestro, e ovviamente a Riccardo, al quale dedico l’articolo che segue.
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Giuseppe Fava era stato assassinato da qualche ora. La mattina dopo piombarono in redazione le telecamere della Rai e intervistarono Riccardo Orioles, questo trentenne con gli occhialini, i capelli lisci, l’eloquio strano delle persone geniali. La mafia a Catania? “Per gli intellettuali non esiste”. E Santapaola? “Per la stampa perbene è Santapaola Benedetto, noto concessionario di automobili. Per I Siciliani è Santapaola Benedetto detto Nitto, mafioso”. E i funerali? “Saranno domani, io non vado: non mi va di stringere la mano ai politici”.
L’assassinio di Fava aveva lasciato un vuoto incolmabile in redazione, fra i ragazzi si avvertiva un senso di smarrimento. Nelle prime ore nessuno sapeva se mollare o continuare. E certamente lo scopo di chi aveva ucciso Fava era proprio questo: uccidere il capo per fiaccare l’esercito. In realtà l’esercito – una dozzina di giornalisti e nulla più – fu tramortito, ma per poco. A contribuire alla destabilizzazione furono la procura della Repubblica, i carabinieri e la polizia che invece di indagare sui mandanti e sugli esecutori (bastava scorrere le pagine dei Siciliani per farsi un’idea), disposero una perizia calligrafica nei confronti dell’intera redazione, e poi ordinarono un accertamento bancario sui poverissimi conti correnti dei ragazzi – laddove esistevano – e su quelli della vittima. Infine il maresciallo dei carabinieri effettuò – non si è mai capito se autonomamente o per conto di altri – un interrogatorio pieno di calunnie e di strane allusioni a Miki, ritenuto “colpevole” di essere stato l’ultimo ad aver parlato con il direttore. Momenti terribili.
Fu proprio Orioles a prendere in mano la situazione: raccolse qualche volontario e nella stessa notte preparò l’edizione straordinaria, poche pagine formato tabloid in cui – senza commemorazioni, senza lacrime, senza retorica – spiegava chi era Fava, perché era stato ucciso, cos’era diventata Catania, quale era il vero volto della mafia. Quell’edizione straordinaria fece il giro d’Italia: tutti ebbero la possibilità di capire cosa si nascondeva dietro alle mistificazioni di certa informazione. Quel numero tenne alta la tensione in attesa della decisione da prendere. E la decisione arrivò la notte successiva a casa di Antonio, davanti al camino, quando il gruppo scelse di continuare. “Se si decide di andare avanti, anche mio figlio deve esserci”, disse orgogliosamente la madre di Antonio Roccuzzo.
E Riccardo coordinò il progetto di formare delle redazioni di “Siciliani giovani” nell’isola e nel resto d’Italia. Telefonava, prendeva contatti, formava gruppi di lavoro, eccetera.
Ricordo quando abitavo a Palermo. La riunione dei Siciliani giovani si doveva fare in un palazzo antico del centro storico. Prima di cominciare ci sedemmo con Riccardo sui gradini di un palazzo del Seicento e parlammo del direttore morto da poco: “Fava era un intellettuale, una persona coltissima, non amava i salotti, gli piaceva stare in mezzo alla gente per capire quali erano i disagi, i problemi, i movimenti sotterranei che affliggevano la società. A Catania era lui che faceva politica, non la sinistra ufficiale, che adesso fa affari coi cavalieri. Una volta col direttore ebbi un’incomprensione, lui ordinò di fermare la rotativa e disse: ‘Se non chiarisco le cose con Riccardo, non si va in stampa’. Negli ultimi tempi mi sembrava triste, un giorno al bar mi fece un discorso: ‘Qualche volta prendono qualcuno di questi disperati della periferia, duecentomila lire, vai e ammazza quello. Chi ce lo fa fare?”.
A un certo punto l’attenzione di Riccardo si concentrò su un ficus centenario: le radici robuste uscivano dal terreno e si intrecciavano col tronco, i fiori bianchi spuntavano dalle foglie. “Ch’è bella la Sicilia”, e fece una lunga pausa. Poi riprese: “Il direttore era uno che veniva dal paese, aveva una cultura contadina; noi siamo più cittadini, non cogliamo certe sfumature, lui sì. Per ogni cosa strabuzzava gli occhi e restava incantato”.
Dopo la riunione salimmo in macchina. Piovigginava. “Tranne Gianni Minà e Joe Marrazzo, nessun giornalista della Rai ci ha espresso la sua solidarietà per l’assassinio del direttore”.
Passammo da una friggitoria. “Ce lo prendiamo un panino con la mèusa?”. Divorò quel panino in trenta secondi. Ridemmo. Mentre lo accompagnavamo alla stazione lo tempestammo di domande, lui era divertito: “Sono di Milazzo, un bellissimo paese vicino Messina, negli anni sessanta decisero di installarci le raffinerie di petrolio e noi facemmo l’occupazione per evitare lo scempio. Alla fine vinsero loro. Allora ero iscritto a Lotta continua. Al liceo ero molto bravo. Dopo la maturità mi iscrissi in fisica perché volevo fare lo scienziato, diedi diverse materie, poi mi misi a fare il giornalista per il Manifesto, vinsi una borsa di studio e diventai professionista, andai a Catania e conobbi Fava. Nei primi tempi avevo la puzza sotto il naso, facevo il fighetto della sinistra, ma quando lessi ‘Passione di Michele’, il suo romanzo più bello, capii che razza di intellettuale avevo davanti”.
Quella sera Riccardo non rientrò a Catania, avrebbe proseguito il viaggio in Sicilia per formare altre redazioni. Aveva un sacco a pelo per dormire sul treno o nelle stazioni più sperdute dell’isola.
Luciano Mirone
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