Domani 18 luglio 2022, vigilia del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio, a Belpasso (Catania) si ricorderà il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. Si parlerà delle responsabilità istituzionali dell’eccidio e dei successivi depistaggi delle indagini. Ad organizzare l’evento (ore 19, Cortile Russo Giusti, via 2^ Retta Levante, 171) è L’Informazione col patrocinio del Comune di Belpasso.
Insomma, si cercherà di capire che Paese è quel Paese che non riesce (mai) ad assicurare alla giustizia i responsabili (soprattutto politici) di una strage o di un delitto eccellente, da Portella della Ginestra (1947) ai giorni nostri.
Perché un boss di primo piano come Luigi Ilardo, capo della Famiglia di Caltanissetta, pentitosi segretamente (e quindi ancora “ufficiosamente”) dopo la morte di Borsellino, fu ucciso alla vigilia del riconoscimento del suo status di pentito, dopo avere svelato i retroscena più inquietanti della strage, i nomi eccellenti legati ad essa e perfino la località segreta nella quale si nascondeva Bernardo Provenzano, boss della Trattativa, ignorato dallo Stato per un quarantennio? Chi ha rivelato a chi i segreti dell’ex boss di Caltanissetta? Perché il delitto Ilardo è stato ignorato per tanti anni dai giornali e dalle televisioni?
Ne parleremo con la figlia Luana, che da quel momento ha intrapreso una decisa azione antimafia nelle scuole, nei convegni e negli incontri, dove racconta questa vicenda (tra l’altro contenuta nel libro di Anna Vinci, “Omicidio di Stato”, editore Chiarelettere), che sarà presentato nel corso della manifestazione di domani).
Ad affiancare Luana ci sarà Mario Ravidà, grande conoscitore dei retroscena legati a questa storia, di cui per diversi anni si è occupato come Ispettore di Polizia.
Ma tante altre domande verranno poste da chi scrive (conduttore del dibattito) anche all’avvocato Enzo Guarnera (presidente dell’Associazione Antimafia e Legalità), uno dei massimi esperti in materia.
Perché – dopo latitanze dorate durate anche quarant’anni – si arrestano e si fanno marcire in carcere i capimafia come Riina, Provenzano e Santapaola, ma si lasciano in libertà boss più giovani e probabilmente dotati di un maggior potere di ricatto come Matteo Messina Denaro?
Perché non si riesce mai a trovare un “mandante politico” o un responsabile dei depistaggi, anche se le presunte responsabilità emergono nei processi? Perché c’è sempre un cavillo che al momento della sentenza cancella perfino l’evidenza?
Perché, pur essendo stato dimostrato che la strage di via D’Amelio sia stata contrassegnata dal “più grande depistaggio della storia dell’Italia repubblicana”, nessun presunto colpevole delle istituzioni (dall’ex capo della Procura di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, all’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, di cui le indagini hanno abbondantemente parlato) ha mai pagato? Da chi sono partiti gli ordini per depistare? Che ruolo hanno avuto i servizi segreti deviati e la massoneria?
L’Italia è un Paese di diritto solo per il cittadino comune? Perché soltanto Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro (il primo fondatore di Forza Italia assieme a Silvio Berlusconi, il secondo ex presidente della Regione Sicilia) della folta schiera dei politici implicati con Cosa nostra, sono stati condannati per mafia? Perché dopo l’espiazione della pena (sette anni ciascuno) entrambi sono tornati a fare politica?
Luciano Mirone
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