Centosessant’anni che si innervano nella storia travagliata ed esaltante di una comunità per gli eventi devastanti che l’hanno distrutta (l’eruzione del 1669 e il terremoto del 1693) e per la tenacia, la laboriosità, la forza morale dei suoi abitanti, che per ben due volte l’hanno fatta risorgere dalla cenere, dandole un’identità all’insegna della civiltà e del progresso.
I centosessant’anni del Circolo Operai di Belpasso (Catania), festeggiati solennemente in questi giorni, vengono raccontati nel libro di Gianni De Luca, “La Società di Mutuo Soccorso di Belpasso nel 160° Anniversario di fondazione” (introduzioni del presidente del sodalizio Salvatore Rapisarda e del sindaco Carlo Caputo, prefazione dell’autore di questo articolo, grafica di Tony Carciotto), che in quasi 200 pagine descrive la parabola del “Circolo dei Mastri”, che scorre parallela alla storia di oltre un secolo e mezzo della comunità in cui opera.
Ne esce fuori un’opera che ogni belpassese dovrebbe conservare per la fedeltà con la quale De Luca riesce a raccontare questi anni attraverso gli Statuti, le foto e i verbali del Consiglio direttivo e dell’Assemblea dei soci, non con la fredda elencazione dei documenti, ma con la cura di chi si mette dalla parte del lettore per fargli gustare i momenti più salienti del sodalizio, anche se l’autore, con discrezione, scrive che “questa pubblicazione non ha, né potrebbe avere, la pretesa di rappresentare la storia della Società Operaia di Belpasso, che vanta essere il più antico e longevo sodalizio laico della città”.
“E’ un primo tentativo – prosegue De Luca – , da considerare come Appunti tirati fuori dai vecchi libri custoditi gelosamente nella sede, che riportano pagine gloriose e circostanze interne… Uomini e idee che hanno promosso, favorito e condizionato situazioni, fatti e manifestazioni proprie dell’identità di Belpasso”.
Chi conosce la storia del Circolo Operai di Belpasso sa perfettamente che non sono parole velate da quella retorica che solitamente caratterizza le celebrazioni. Sono concetti veri che hanno origini antiche. Concetti provenienti dalle “voci lontane” dei Mastri (per dirla con l’autore) “che innalzarono la Loggia Comunale, la Matrice, i palazzi baronali, dei notai e della buona borghesia nostrana; ma anche le ‘case basse’ della gente di Belpasso, di quella variegata umanità che costituiva il sentimento fiero della città, fatto di lavoro, di sacrificio, di valori umani e spirituali che erano e dovrebbero essere ancora i nostri ‘valori di riferimento”.
“Le ‘voci lontane’ dei Pirriaturi – dice ancora De Luca – che estrassero la pietra lavica dalla cava vicino il Camposanto per il balatato della via Etnea, le voci di quelli che edificarono il Teatro comunale e il nuovo Municipio, su, al colle della Silva”.
Si parte dalle origini del Circolo, 1863, quando, appena due anni dopo l’Unità d’Italia, al cospetto dei ritratti di Garibaldi e di Mazzini, che campeggiano nel salone, quarantaquattro cittadini non di alta istruzione scolastica (calzolai, panettieri, falegnami, fabbri ferrai, muratori imbianchini, ecc.) ma di straordinaria lungimiranza (fra le persone più colte, un sacerdote di casa Bufali, la famiglia che dopo il terremoto del 1693 diede un impulso determinante l’edificazione del nuovo paese), fondarono il sodalizio. Teoricamente lo scopo è quello di riunire la classe operaia sotto un unico Statuto e di creare il “mutuo soccorso fra i soci”, moralmente di dare un futuro migliore alle nuove generazioni.
Basta leggere le “carte” per comprendere come, fin dai primi anni, si avverta quell’anelito di “civiltà” che si manifesta mediante l’istruzione, la cultura e la solidarietà. Ogni domenica i soci, assieme alle loro famiglie, sono chiamati ad assistere alla spiegazione dello Statuto del Regno d’Italia, alle lezioni di lettura, di scrittura, di “conto” e di disegno ornato. Se un socio versa in cattive condizioni economiche, deve essere aiutato dal sodalizio. Se un iscritto, povero o benestante, muore, la Società è tenuta a partecipare ai funerali con la bandiera, con lo stendardo e con abiti decorosi: se è indigente è chiamato a sostenere le spese delle esequie.
Un anelito di civiltà che si manifesta anche mediante l’impegno sociale e politico. Memorabile la posizione assunta dagli Operai nei confronti di certi notabili locali accusati di avere estorto a loro vantaggio un testamento alla baronessa Margherita Bufali ormai incapace di intendere e di volere, che in precedenza, quando era nelle piene facoltà mentali, aveva destinato i suoi averi alle bambine povere dell’omonimo orfanotrofio.
Memorabile l’impegno “diretto” a favore del sindaco di Catania Giuseppe De Felice, socialista e “padre” dello Statuto dei lavoratori, quando questi decide di candidarsi al Parlamento, e a favore del del sindaco “defeliciano” Barbarino Carbonaro, sostenuto dalla lista espressa all’interno dell’assemblea.
Memorabile il convegno antifascista organizzato nei locali “di questa patriottica città” all’indomani del delitto Matteotti, con una “riunione che riuscì imponentissima”, conclusasi col coro unanime di “Viva Matteotti, viva la libertà” e col telegramma inviato dall’allora presidente Arena alla signora Velia, vedova del leader socialista.
Ma anche un anelito di “progresso” quando, pochi anni dopo, all’interno della Società, viene fondata la Banca degli Operai di Mutuo Soccorso. Una iniziativa sorta per fronteggiare l’usura, una piaga che allora attanaglia il paese, ma anche in questo caso per migliorare lo status delle generazioni future mediante il sostegno delle piccole iniziative che fanno crescere gradualmente quella categoria, adesso assurta al rango di “borghesia artigiana”.
Con l’avvento della banca, Belpasso migliora sensibilmente la propria condizione economica. Basta leggere le statistiche per comprendere che il fenomeno della povertà e dell’emigrazione, in questa comunità, è quasi inesistente.
Passano gli anni. Il circolo e la banca si consolidano. L’istituto di credito – chiamato nel frattempo Banca Popolare di Belpasso – apre decine di filiali in provincia di Catania, di Messina e di Siracusa. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo inizia l‘epoca degli “eroi maledetti” (per dirla con Turi Vasile) di una Cosa nostra che dalla Sicilia occidentale mette le mani anche in questo lembo di Sicilia un tempo felice, riuscendo a condizionare pesantemente i diversi settori della vita pubblica del paese, specie quello economico. In pochi anni la storia della banca finisce. Nessun dibattito pubblico per illustrarne le cause e per prevedere il futuro. È in corso quella “mutazione antropologica” che, si legge nelle pagine del libro, coinvolgerà “traditori”, “giuda”, “opportunisti” “ppi na manciata di pasta”.
Alla fine degli anni Ottanta, i presidenti del Circolo Operai Salvino Asero, del Club Progressista Mario “Nino” Leonardi e dell’Associazioni Combattenti Giuseppe D’Arrigo – dopo la presa di posizione assunta poco tempo prima dalla Chiesa locale – prendono carta e penna per scrivere una lettera di fuoco al sindaco di Belpasso dove si esprime indignazione per il crescente degrado della città. Nessuna risposta.
Successivamente accadono due fatti straordinari. Il primo: una donna, Graziella Manitta, viene eletta presidente. Il secondo: i locali del Circolo rischiano di passare nelle mani della banca del Nord che ha assorbito la vecchia “Popolare”. Con un impegno straordinario, i soci riescono a raccogliere una cifra considerevole che consente loro l’acquisizione della sede storica. Che dopo centosessant’anni continua a rappresentare un punto di riferimento solido e fondamentale di questa città.
Luciano Mirone
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