Può un giornale cambiare la tua vita? Può irrompere come un fiume in piena mandando in frantumi le tue certezze? Spiegare un giornale – lo spirito, l’anima, la natura di un giornale – è difficile. Spiegare “quel” giornale forse è impossibile. Tante le immagini, le sensazioni, le emozioni che è stato capace di trasmettermi.
Già il titolo, I Siciliani, ti diceva che esisteva una Sicilia che si ribellava alla mafia e con orgoglio la sfidava con le armi della civiltà. Ma non fu solamente la lotta alla mafia che mi colpì. Era un modello culturale nuovo, capace di imporsi nell’isola e nel resto d’Europa. Quel giornale fu un ordigno che esplose nelle nostre coscienze ottenebrate da una società completamente narcotizzata.
Veniva fatto a Catania, ed io immaginavo la mia città come la punta avanzata di una lotta d’avanguardia che si contrapponeva alla Sicilia oscurantista e violenta di allora. Sfogliavo quelle pagine e leggevo quello che avevo appreso in certi colloqui riservati tra ufficiali dell’Arma e capivo meglio i retroscena del delitto Dalla Chiesa, i legami tra la P2 e gli apparati deviati dello Stato, i collegamenti tra la mafia e i vertici delle istituzioni. Sfogliavo ancora e mi imbattevo nei “cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, in quei nomi che nessuno osava pronunciare, i veri padroni dell’isola.
Sfogliavo ancora e mi imbattevo nella storia del fallimento dell’industrializzazione in Sicilia, i poli petrolchimici di Augusta, di Priolo, di Melilli, di Gela, di Milazzo, la più alta percentuale di bimbi malformati d’Europa. Sfogliavo ancora e mi imbattevo nelle grandi battaglie del direttore contro l’installazione dei missili americani a Comiso, e poi in quei grandi reportage a colori sulla Sicilia più arcana, su certi incredibili personaggi che vivevano nei punti più sperduti dell’isola.
Concentravo la mia attenzione sui pezzi di Giuseppe Fava. I suoi romanzi, le sue opere teatrali, i suoi saggi circolavano anche all’estero, un film tratto da un suo libro, “Passione di Michele”, aveva vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, uno dei massimi riconoscimenti cinematografici a livello mondiale. E chi lo sapeva? In Italia molti scrittori importanti, di fronte alla tragedia siciliana, preferivano educatamente girarsi dall’altro lato. Fava no. Lui si era messo in un gioco troppo pericoloso, anzi, si era messo completamente fuori gioco.
Quella rivista irruppe con il nome di Giuseppe Fava. Il quale, attraverso le storie drammatiche o buffe dei suoi personaggi, dimostrava come il dolore, la miseria, l’ignoranza, la violenza, il sottosviluppo, le sofferenze di un popolo non sono fenomeni casuali ma hanno responsabilità politiche precise. Lo faceva in maniera ironica, sferzante, romantica, con rigore intellettuale e in maniera semplice. Tutto questo penetrava nelle nostre coscienze e diventava devastante per il potere.
Poi una sera… “I veri mafiosi non sono quelli che sparano, quelli sono solo degli esecutori, degli scassapagghiara. I veri mafiosi stanno in parlamento, sono ministri, banchieri, parlamentari”. Poche parole pronunciate pacatamente. Un pugno nello stomaco per una Nazione che per la prima volta sentiva certi discorsi in televisione e scopriva che la mafia non era un problema solo siciliano, ma nazionale ed europeo.
Era una fredda sera di dicembre, lui aveva un giubbotto nero, una fronte larga, la barba nera e una voce profonda. Le luci dei lampioni si smorzavano sulle strade di Trapani, mentre un’altra luce cominciava ad accendersi.
Passarono alcuni giorni, arrivò Natale e poi capodanno…
La mattina del 6 gennaio qualcuno mi disse: “Ieri sera hanno ammazzato Giuseppe Fava”. Sei parole che esplosero in una fredda giornata d’inverno. Sui giornali perbene cominciammo a leggere un bel po’ di cronachette di colore, Fava che amava il calcio, Fava che scriveva di teatro, Fava che aveva fatto l’inviato al festival di Taormina. E la mafia? Ma quale mafia. L’arma del delitto, una 7,65, porta gli inquirenti a seguire altre piste, non esclusa quella privata. L’unico quotidiano di Catania sciorinò questa battuta a cadavere ancora caldo e la voce cominciò a diffondersi come la peste. Donne? Certo! Meglio ancora ricatti. Fava era un fimminaru e ricattava i cavalieri del lavoro.
Eppure in quei momenti stava accadendo anche qualcos’altro. Una notte sognai di trovarmi sulla montagna di Erice e da lassù, all’imbrunire, osservavo la città: era tutto buio, il cielo, le case, le strade, la campagna, il mare. Piano piano vidi accendere una luce, poi un’altra, poi un’altra, c’era molto nero ma c’erano anche dei puntini bianchi. Mi svegliai e mi accorsi di essere pervaso da una sensazione dolcissima…
Luciano Mirone
(Tratto dal libro “ITACA. Viaggio in un racconto dell’anima”, L’Informazione editore)
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