Quali sono le analogie fra Nino Martoglio e Giuseppe Fava? Questa la domanda posta da alcuni lettori dopo l’articolo uscito su L’informazione (“Se Orioles fosse stato ai tempi di Martoglio”), in cui ho scritto che tra i due esistono alcune diversità, ma anche molti punti in comune, a partire dal filo che li lega: Catania, la loro città matrigna.
LE DIFFERENZE. Entrambi operarono in epoche diverse. Martoglio nacque nel 1870 a Belpasso, vicino Catania, in una Sicilia arretrata ma caratterizzata dai “poeti della strada”, dall’opera dei pupi, dalle tradizioni teatrali che in quel paesino dell’Etna hanno radici antiche e dai fermenti dell’Unità d’Italia, rilanciati da Luigi Martoglio, padre del commediografo, rivoluzionario, garibaldino e mazziniano. Nino visse la Prima guerra mondiale, nella quale perse il fratello Bruno in battaglia.
Fava nacque nel 1922 a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, in un’Isola culturalmente ed economicamente non molto diversa da quella nella quale, cinquantadue anni prima, Nino aveva visto la luce.
Martoglio visse da protagonista (fu consigliere comunale per due anni) la “rivoluzione socialista” del grande sindaco di Catania, Giuseppe De Felice, in una città nella quale la destra storica dominava da tempi immemorabili.
Fava attraversò tutte le contraddizioni del Novecento e visse – non da politico, ma da intellettuale – un’altra grande rivoluzione: il Sessantotto. Non a caso Orioles (fra i leader storici del movimento in Sicilia) dice che il miglior libro sul Sessantotto è quel Passione di Michele che valse a Fava l’Orso d’Oro al Festival di Berlino per il film Palermo oder Wolsburg, tratto da quel romanzo.
Ma probabilmente le differenze maggiori riguardano gli studi: dopo il liceo classico, Fava si laureò in Giurisprudenza; Martoglio si diplomò al Nautico e non risulta che si fosse iscritto all’Università. Fava scelse di vivere (e di lottare) quasi sempre in Sicilia (tranne una breve parentesi romana) pur avendo una visione internazionale delle dinamiche politiche ed economiche.
Martoglio a soli quattordici anni si imbarcò come marinaio (alla fine diventò Capitano di lungo corso) e girò per circa sei anni il Mediterraneo e il Mar Nero, facendo le avventure più incredibili. Poi tornò a Catania e anche lui – pur partendo dalla sua città – cominciò ad osservare il mondo con uno sguardo lunghissimo.
Dopo la morte, i due non ebbero la stessa sorte. Martoglio – grande amico di intellettuali come Pirandello – non poté contare su nessuno per smascherare il clamoroso insabbiamento seguito al suo decesso. Fava poté contare sui “carusi” de I Siciliani che lottarono strenuamente per fare verità e giustizia dopo gli incredibili tentativi di insabbiamento organizzati dalle massime autorità cittadine.
LE ANALOGIE. Malgrado la differenza di studi, entrambi provenivano dal mondo contadino, erano molto colti e soprattutto erano degli intellettuali liberi. Giornalisti di idee socialiste, vissero a Catania e con Catania vissero un rapporto di amore-odio rimasto fino alla morte.
Fava si trasferì nel capoluogo etneo dopo il liceo frequentato a Siracusa, Martoglio dopo Belpasso vi risiedette dagli otto ai trentaquattro anni. Con i loro giornali denunciarono le corruzioni e le malefatte del potere, dal quale erano avversati e odiati, mentre erano visceralmente amati dal popolo. Martoglio attraverso la satira, Fava attraverso i reportage, le analisi e le inchieste.
Martoglio metteva alla berlina i politici conservatori della città, subendo 200 querele e intraprendendo 21 duelli. Col suo giornale preparò il terreno per la vittoria di De Felice nel 1902. Memorabile il primo editoriale del D’Artagnan: “Se qualcuno pensa che questo giornale è scritto con il fiele si sbaglia, esso è bagnato di lacrime amarissime… Denunceremo la corruzione imperante e la sopraffazione nei confronti del popolo che muore di fame”.
Fava raccontò la Catania e la Sicilia degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, periodo di una epocale “mutazione antropologica” di cui individuò le cause: la violenza mafiosa, la corruzione, le raffinerie di petrolio di Gela, Priolo, Augusta, Melilli, Milazzo, la disperazione e la cementificazione selvaggia di luoghi come Palma di Montechiaro, l’installazione dei missili americani a Comiso.
Furono grandi uomini di teatro e di cinema. Martoglio mise in pratica la “rivoluzione verghiana” usando soprattutto il dialetto e raccontando la Catania dei quartieri popolari (la Civita e San Berillo), oltre ai personaggi e alle storie che caratterizzavano il mondo contadino dei paesini dell’entroterra nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Fu il fondatore della splendida epopea del teatro siciliano, esportato ed applaudito in tutto il mondo, fu maestro di palcoscenico di Pirandello e scopritore di autentici talenti come Giovanni Grasso ed Angelo Musco. Fu un pioniere del cinema muto ed autore di uno dei più grandi capolavori della settima arte: Sperduti nel buio, trafugato dall’esercito nazista durante l’occupazione di Roma, ma visto precedentemente presso il Centro sperimentale di cinematografia dai grandi Maestri del neorealismo come Visconti, De Sica e Rossellini, che si ispirarono a quel film per avviare la straordinaria stagione del neorealismo.
Fava scriveva in lingua e, pur partendo dalla Sicilia, raccontava metaforicamente il cambiamento dell’Italia attraverso la Catania di Cronaca di un uomo (la vicenda di un giovane cronista degli anni Sessanta costretto a vivere in semi povertà pur di non piegarsi ai compromessi del potere) e la Catania de L’Ultima violenza (anni Ottanta) in cui preconizzò l’alleanza fra mafia, politica, terrorismo, parte del potere economico e P2.
Non poteva durare a lungo. E infatti non durò. Entrambi a un certo punto della loro vita “scapparono” dalla loro città e si rifugiarono a Roma. Fava fu licenziato dagli editori del Giornale del Sud perché “colpevole” di lottare il potere eversivo della mafia. Martoglio fu accusato di essere “troppo” rivoluzionario e nel 1904 riparò nella Capitale.
Fava scrisse: “Io ho un rapporto con Catania come quello che un uomo può avere con una puttana della quale si è perdutamente innamorato”.
Martoglio vergò a un amico: “Catania, questo paese così triste, anzi così tristo, mi respingeva come la morta gora respinge anche le fere”.
Ma il fatto che probabilmente – più di ogni altra cosa – accomuna i due personaggi è un episodio che spiega la loro tempra di intellettuali.
Ultimo editoriale di Fava su I Siciliani. Titolo: “Gli invulnerabili”. Il giornalista parla dell’esordio de L’Ultima violenza al Teatro Stabile di Catania. Il palco è rivestito di specchi che riflettono gli attori e il pubblico. Alla fine dell’opera vengono avanti i protagonisti. Viene avanti il politico che ha depredato la città. Applausi per l’attore che lo interpreta. Viene avanti il mafioso che ha ucciso decine di persone. Applausi anche per lui. Clap clap. Viene avanti Turi Ferro, uno splendido avvocato Bellocampo, che ha difeso le cause più ignobili di costoro. Ovazione. Viene avanti il cavaliere del lavoro colluso che si è aggiudicato appalti in tutto il mondo. Scroscio di mani, mentre in sala applaude il vero cavaliere del lavoro ormai convinto di essere invulnerabile. Pochi giorni dopo l’assassinio.
Ultima commedia di Martoglio: Il Marchese di Ruvolito. Mattatore in tutti i teatri italiani, Angelo Musco. L’opera è ambientata nel periodo in cui i nuovi arricchiti “sbranano” la classe aristocratica e ne acquistano i titoli nobiliari. Un facoltoso feudatario compra l’attestato e diventa marchese: nella commedia viene indicato con uno pseudonimo, ma l’indicazione è precisa: risiede nel sontuoso Palazzo di via Etnea, di fronte all’Orto Botanico.
Chi è costui? Il deputato conservatore Pasquale Libertini, barone di San Marco, ricchissimo possidente colluso con la mafia, che per vent’anni era stato acerrimo avversario politico di Martoglio e di De Felice.
Quando l’artista fu ritrovato morto all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania, il presidente dell’ente era proprio lui, l’onorevole Pasquale Libertini, sotto inchiesta per un paio di scandali finanziari: fu Mussolini a salvarlo nominandolo senatore del Regno d’Italia. Poche ore prima, Martoglio e Libertini avevano avuto uno scontro: non si è mai saputo di che natura. I magistrati archiviarono la morte del commediografo come “fatto accidentale”. La mia inchiesta pubblicata nel libro “Il caso Martoglio” racconta un’altra storia, a cominciare dai nomi dei padroni della città che in quel momento presidiavano l’ospedale e dirigevano le operazioni.
In entrambi i casi la parola d’ordine fu: “banalizzare” tutto. Nel caso di Fava si disse e si scrisse che la pistola calibro 7,65 con la quale il giornalista era stato ucciso non era in dotazione alla Famiglia mafiosa catanese e quindi bisognava guardare in altre direzioni, a cominciare dall’“omicidio passionale” e dai “ricatti” (un classico in Sicilia) , salvo a scoprire che con quel calibro, a Catania, erano stati commessi praticamente tutti i delitti di mafia.
Nel caso di Martoglio si disse e si scrisse “con certezza” che fosse morto a causa della caduta casuale avvenuta nella tromba dell’ascensore dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania dove il commediografo aveva accompagnato il figlio affetto da paratifo. Prove? Nessuna. Tutti gli elementi portavano al delitto, ma furono sapientemente occultati.
Banalizzare la fine di un personaggio popolare – specie se intellettuale – serve ad eliminare l’ipotesi dell’omicidio politico (e quindi ad escludere un mandante e un movente), a ridicolizzare la figura della vittima e a creare una deterrenza sulle possibili reazioni dell’opinione pubblica, soprattutto quando si tratta di un omicidio politico.
Prima di essere ucciso dalla mafia, Fava era impegnato a trasformare il suo mensile in quotidiano. Martoglio – alla vigilia del fascismo – era in trattative per rifare il D’Artagnan.
Tre giorni dopo la morte di Martoglio, la bara fu sommersa da migliaia di fiori che la gente lanciava dai balconi della città.
Tre giorni dopo la morte di Fava, la sua figura fu sommersa dal lunghissimo applauso delle trentamila persone presenti allo stadio Cibali per vedere il Catania in serie A. In tutt’e due i casi, la città aveva capito.
Nella foto: Nino Martoglio e Giuseppe Fava
Luciano Mirone
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