Flash numero uno. Dopo un rocambolesco inseguimento sui tetti, alla fine, Mariano Agate riusciste ad acciuffarlo. Era un boss potentissimo, uno dei più temuti del mondo, decine di morti ammazzati sulla coscienza, fortissime aderenze col mondo politico e massonico, da decenni latitante al suo paese: Mazara del Vallo. Quando dopo la cattura, lo portarono in caserma, qualche sottufficiale cominciò a prenderlo a pugni e a schiaffi e ti indignasti: “Non dovete permettervi. Lui è un delinquente è ha il diritto di scappare, noi siamo carabinieri e abbiamo il dovere di prenderlo e di consegnarlo all’autorità giudiziaria”. “Ma signor colonnello, ha ucciso un sacco di gente…”. “E’ un ordine”.
Da circa un anno eri a capo del Comando provinciale dell’Arma di Trapani. In caserma era arrivata la soffiata: Mariano Agate si nasconde a casa sua e le più alte autorità del paese fanno finta di niente. Ricordo l’alba di quel giorno: il vocio dei carabinieri che risuonava nel cortile, le “gazzelle” pronte a partire, la sgommata delle auto, tu che montasti su una di quelle auto e io, con i miei vent’anni e la mia ingenuità, seguivo la scena dalle tapparelle semichiuse. Dopo qualche ora i telegiornali aprirono con la notizia. La sera a casa, più incazzato che mai, raccontasti che qualcuno aveva cercato di picchiare il boss.
Flash numero due. Avevo otto o nove anni. Eravamo a Mistretta. In quel piccolo paese in mezzo alle montagne della Sicilia comandava la famiglia del boss Rampulla (sì, quella di Pietro, colui che molti anni dopo avrebbe fatto a pezzi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta). Tremavo al pensiero che potesse capitarti qualcosa. Allora qualsiasi tipo di malvivente (dall’assassino all’estortore), non lo distinguevo per tipologia, per me tutti gli impostori della terra erano “i ladri”. Era estate. Un viale costeggiato da alberi. Nell’aria un profumo intenso di fiori. Sul marciapiede, mentre si passeggiava, mi tenevi per mano. “Quando sarò grande ucciderò tutti i ladri del mondo e ti salverò”. Pensavo ad una reazione di piacere, invece mi dicesti con serenità: “Tu non ucciderai nessuno”. “Perché papà, io voglio salvarti la vita”. “Perché anche i ladri sono figli di Dio”.
Flash numero tre. Stavolta la storia era ironica e la narravi spesso per spiegare cos’era, per te, l’Arma dei carabinieri. Questo il racconto: un giorno andai a visitare una stazione della mia giurisdizione. A un certo punto la pattuglia tornò dal servizio: i carabinieri erano contenti perché avevano fatto un sacco di multe. Una specie di record di cui andare fieri di fronte al comandante. Eccesso di velocità, guida in stato di ebbrezza, ok, e poi? Stangate al contadino col fanale rotto, all’ambulante senza catene nelle gomme, al disoccupato senza il triangolo. Va bene l’eccesso di velocità e la guida in stato di ebbrezza, ma se ci accaniamo con i poveracci è finita, per una volta chiudete un occhio: se la prossima volta sarete in difetto scatterà la multa. La gente non può perdere fiducia nelle istituzioni, i carabinieri devono perseguire i mafiosi, gli assassini, i rapinatori, non i poveri cristi.
Flash numero quattro. Quando eri libero dal servizio tornavi ai tuoi vecchi amori: Tucidide, Polibio, Lucrezio, Seneca, Platone, Sant’Agostino, Marziale, la Costituzione. Ogni tanto non sarebbe male, dicevi, se un uomo di legge consultasse questi testi.
Chiedo scusa se per una volta parlo di mio padre. Mi viene spontaneo quando vedo certi orrori, dal G8 di Genova al caso Cucchi, fino alle ultime manganellate della Polizia contro degli studenti inermi.
Nella foto: la carica della Polizia contro gli studenti di Pisa che manifestavano a favore del popolo palestinese
Luciano Mirone
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