Ci sono indagini che vengono svolte in modo esemplare, e ci sono indagini che vengono svolte in modo talmente discutibile da rasentare lo scandalo.

Dispiace dirlo, ma abbiamo la netta sensazione che l’indagine sulla morte di Attilio Manca – il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto trovato cadavere la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo – abbia i connotati dello scandalo.

Il fatto che gli inquirenti laziali non abbiano sentito il dovere di dare uno straccio di spiegazione alle pesanti accuse di immobilismo, di omissioni, o peggio, di insabbiamento mosse dai familiari, dai giornalisti e dall’opinione pubblica, spiega abbastanza chiaramente qual è la linea adottata dal Palazzo di Giustizia di Viterbo.

Le uniche risposte certe sono tre richieste di archiviazione presentate dal Pm Renzo Petroselli, rigettate dal Giudice per le indagini preliminari, che l’ultima volta, pressato da un’opinione pubblica sempre più sensibile a questa vicenda, si è preso un anno e mezzo per decidere.

Sappiamo benissimo che gli inquirenti devono lavorare in silenzio. La linea della riservatezza è una condizione imprescindibile per operare con equilibrio e saggezza.

Ma quando una persona viene trovata morta, col naso completamente deviato, col volto tumefatto, con dei lividi sparsi in tutto il corpo, con le labbra gonfie e pestate, con il sangue che gli scorre dal naso e dalla bocca, con due buchi nel braccio sinistro (nel braccio sbagliato, perché Attilio è un mancino puro); quando questa persona ci viene consegnata ufficialmente come suicida o come drogato in quanto le analisi hanno accertato che Attilio è deceduto per un’overdose di eroina, di alcol e di tranquillanti, malgrado l’esclusione della tossicodipendenza frequente o occasionale; quando chi svolge le indagini non fa la cosa più elementare di questo mondo, cioè rilevare le impronte digitali sulle due siringhe trovate in bagno e in cucina (addirittura col tappo ancora applicato nell’ago), nonostante le pressanti richieste dell’avvocato Fabio Repici, legale dei Manca; quando dai tabulati, secondo lo stesso penalista, spariscono delle telefonate importanti; quando esistono due versioni nettamente contrastanti perfino sulla descrizione del cadavere (e ora vedremo perché), possiamo non definire scandalosa un’inchiesta?

 

Quella di Attilio Manca non è una morte come tante. I familiari – il padre Gino, la madre Angela e il fratello Gianluca – sono convinti che sia da collegare con l’operazione di cancro alla prostata alla quale nell’ottobre del 2003 fu sottoposto a Marsiglia il boss corleonese Bernardo Provenzano, allora latitante.

Ne sono convinti per almeno sette motivi.

1)Proprio nell’autunno del 2003, Attilio fa un misterioso viaggio in Costa Azzurra, con tappa a Marsiglia “per assistere a un intervento”, come lui stesso comunica alla madre per telefono. 2) Benché 34enne, Attilio è uno degli urologi più bravi d’Italia: allievo più brillante del prof. Gerardo Ronzoni (primario del policlinico “Gemelli” di Roma), ha conseguito un’alta specializzazione a Parigi ed è uno dei rarissimi medici italiani, nel 2003, ad operare il cancro alla prostata con la tecnica della laparoscopia (ancora agli albori in Italia), in Sicilia forse addirittura l’unico. 3) Il pentito Francesco Pastoia, braccio destro di Provenzano, ha dichiarato che “ad assistere all’intervento del boss è stato un medico siciliano”. Poco dopo il pentito muore – suicida anche lui – nel carcere di Modena, portandosi nella tomba altri possibili segreti. 4) Attilio Manca è di Barcellona Pozzo di Gotto (particolare da non sottovalutare), una trentina di chilometri da Messina, un comune dove la mafia ha avuto un ruolo fondamentale nella strage di Capaci, nell’assassinio del giornalista Beppe Alfano, e nella latitanza di grandi boss come Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano: dunque la mafia di Barcellona ha ottimi rapporti con i Corleonesi, ai quali, secondo i familiari di Attilio, il medico potrebbe essere stato “offerto”, a sua insaputa, per l’operazione a Provenzano. Barcellona è un centro nevralgico per i collegamenti fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati. In questa città c’è un circolo paramassonico, la “Corda fratres”, dove esiste una convergenza fra mafiosi, politici e magistrati, e dove il favoritismo fra gli adepti viene spacciato per un malinteso senso di “solidarietà”.

Soci del sodalizio sono il vice presidente del Senato, Domenico Nania, il sindaco Candeloro Nania, il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, il procuratore generale della Corte d’Appello di Messina, Franco Antonio Cassata (animatore ed ex presidente del circolo, attualmente sotto inchiesta a Reggio Calabria per concorso esterno in associazione mafiosa), in compagnia del boss Giuseppe Gullotti (espulso dalla “Corda” soltanto dopo che la magistratura ha accertato che il capomafia è stato il mandante del delitto Alfano e il fornitore del telecomando della strage di Capaci), e l’avvocato Rosario Cattafi, altro personaggio inquietante, ritenuto (ma poi prosciolto) di essere uno dei mandanti esterni dell’eccidio in cui ha perso la vita il giudice Falcone. 5) Provenzano avrebbe trascorso una parte della latitanza proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, precisamente a Terme Vigliatore, protetto da una fitta rete di fiancheggiatori appartenenti non solo all’ala militare di Cosa nostra. 6) L’urologo, benché residente da diversi anni nel Lazio, aveva mantenuto buoni rapporti – sottovalutando le conseguenze – con alcuni coetanei di Barcellona, diventati nel frattempo organici a Cosa nostra. 7) Esistono elementi importanti che portano a ritenere che poco tempo prima di morire, il medico potrebbe aver confidato a qualche amico barcellonese i segreti dell’operazione a Provenzano.

Sette punti indubbiamente importanti, che però non hanno il valore di una prova. Sette punti che tuttavia bisogna tener presente per capire il “contesto” nel quale questa vicenda si muove, dato che l’attenzione dei magistrati laziali, dallo scorso dicembre, si è concentrata proprio sulla cittadina siciliana. Sette punti che comunque devono essere approfonditi adeguatamente.

Da due mesi, dunque, ci sono sei indagati: una donna di Roma e cinque uomini di Barcellona. Di questi cinque, almeno un paio, sono legati a Cosa nostra. L’accusa è di aver ceduto l’eroina al medico.

Se è plausibile lo sforzo dei magistrati di Viterbo di cominciare a guardare “dentro” il contesto barcellonese, non convince l’accusa di considerare i cinque indagati (almeno quelli collegati alla mafia) alla stregua di semplici pusher in trasferta a Viterbo.

Ma ammettiamo che la morte di Attilio non sia collegata all’operazione di Provenzano. Ipotizziamo pure che la “pista Provenzano” sia una semplice congettura fatta dai genitori e dal fratello dell’urologo.

Stiamo ai fatti più evidenti.

Perché al cospetto di un cadavere massacrato in quel modo, gli inquirenti di Viterbo, per sette anni, hanno sposato ostinatamente la tesi del suicidio per overdose, salvo a derubricarla di recente a semplice morte per overdose, sostenendo che in entrambi i casi, Attilio si sarebbe iniettato la dose fatale? “Proprio lui”, dice la madre, “che non beveva neanche il vino affinché fosse lucido in sala operatoria”.

Dove sono le prove della tossicodipendenza, se è stato escluso dalle analisi e dall’autopsia che Attilio fosse un drogato? Se sono quei due buchi, per giunta nel braccio sbagliato, siamo fuori strada: chi dice che sia stato Attilio a farseli? Chi dice che non siano stati i suoi assassini, dopo averlo massacrato, ad iniettargli quel miscuglio di eroina, alcol e tranquillanti per simulare il suicidio?

E le siringhe? Chi dice che non siano stati gli stessi assassini a farle ritrovare in cucina e in bagno? Come viene in mente alla vittima, ormai stordita da quel micidiale mix, di riporre addirittura i tappi negli aghi? E come si spiega il volto massacrato, il sangue, i lividi, il parquet danneggiato della camera da letto? Perché non vengono trovati i boxer e i calzini della vittima neanche nell’apposito contenitore della biancheria sporca?

Quel che sembra singolare è il fatto che su quelle siringhe, in questi otto anni, nessuno ha mai pensato di rilevare le impronte. Su questo (e non solo) i magistrati di Viterbo hanno il dovere di fornire spiegazioni.

Soltanto adesso il Gip Salvatore Fanti ha disposto una perizia sulle siringhe. Vedremo cosa uscirà, vedremo se saranno sparse altre cortine fumogene.

Purtroppo con la mancata analisi immediata sulle siringhe si è persa un’occasione preziosa per imboccare la strada giusta. E su questo gli inquirenti di Viterbo hanno responsabilità gravissime.

Altra domanda. Perché esiste una totale difformità fra il referto dell’autopsia stilato dalla dottoressa Danila Ranaletta – moglie del primario del reparto di Urologia dell’ospedale “Belcolle”, alle cui dipendenze lavorava Attilio – e il referto dell’ispezione cadaverica stilato dal medico del 118?

Se da un lato la dottoressa Ranaletta “sorvola” su particolari decisivi come le ecchimosi in tutto il corpo, il setto nasale deviato e il volto devastato; dall’altro, il medico del 118, di questi elementi fa il punto centrale della sua relazione, che combacia esattamente con le foto. Anzi, il medico del 118 vede una maggiore concentrazione di ecchimosi all’estremità degli arti superiori ed inferiori, come se Attilio fosse stato legato prima di morire.

Chi effettua l’autopsia, dunque, non vede ciò che vede il medico del 118: ovvero la devastazione del corpo di Attilio. Di conseguenza chi effettua l’autopsia esclude, seppure indirettamente, il pestaggio della vittima.

Si tratta di un passaggio cruciale dell’inchiesta.

Da queste tesi assolutamente contrapposte emerge un’ipotesi inquietante: che uno dei due referti sia errato, quindi uno dei due professionisti potrebbe aver sbagliato clamorosamente. Se in buona o in mala fede devono stabilirlo i magistrati. Ma loro, i magistrati, imboccando la pista del suicidio e della tossicodipendenza di Attilio, lo hanno stabilito da otto anni. E la documentazione fotografica? Anche in questo caso, non sarebbe male che gli inquirenti spieghino.

Così come non sarebbe male spiegare all’avvocato Repici e alla famiglia Manca perché per eseguire l’autopsia sia stata scelta la moglie del prof. Antonio Rizzotto (primario di Attilio), sottoposto ad interrogatorio dopo il ritrovamento del cadavere.

Perché Rizzotto – secondo le testimonianze della famiglia Manca – staziona dietro la porta della moglie che esegue l’autopsia, assieme ad uno degli attuali imputati (ora vedremo chi), sollecitandola a far presto in quanto “bisogna consegnare subito il cadavere alla famiglia”? La famiglia però ha sempre smentito di aver preteso la “consegna immediata” del corpo di Attilio. È allora?

Ci sono almeno due figure centrali, in questa vicenda, sulle quali probabilmente non si è indagato abbastanza.

Una è quella di Ugo Manca, cugino della vittima, la persona che passeggia nervosamente in compagnia del prof. Rizzotto dietro la porta della dottoressa Ranaletta.

Ma il punto fondamentale che riguarda Ugo non è solo questo.

Una sua impronta palmare – assieme ad altre cinque ritenute “sconosciute”, concentrate sul pulsante dello sciacquone e in prossimità del water – è stata rinvenuta dalla Scientifica nell’appartamento dell’urologo, impressa su una mattonella del bagno, proprio sopra il gabinetto.

Ugo Manca – condannato in primo grado al processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, e assolto in secondo grado – è ritenuto organico alla mafia di Barcellona Pozzo di Gotto. Il contesto in cui agisce non è solo quello di Cosa nostra, ma anche quello della “Corda fratres”.

Da un lato è considerato legato alla mafia, dall’altro amico intimo (assieme alla sua famiglia) del magistrato Cassata e di quella pletora di personaggi che opera all’interno del circolo.

Una delle tante anomalie barcellonesi sulle quali il Consiglio superiore della magistratura non ritiene di intervenire.

Di più: il dott. Cassata risulta amico di Rosario Cattafi e del legale di Ugo Manca, l’avvocato Franco Bertolone, anche lui socio della “Corda fratres”, da sempre difensore del gotha della criminalità barcellonese. Anche in questo caso tutto normale.

(“Nel corso del processo “Mare nostrum” contro le cosche messinesi e barcellonesi – spiega Gianluca Manca –, a un certo punto l’avvocato Bertolone chiama a testimoniare un ex tossicodipendente appartenente al giro della ‘Corda fratres’. Questi, invece di soffermarsi sull’argomento del processo, parla inaspettatamente di mio fratello. Cosa dice? Che Attilio si bucava assieme a lui, sia con la mano destra che con quella sinistra. Perché non lo ha riferito ai magistrati di Viterbo, invece di dirlo nel corso di un dibattimento che non si occupa di Attilio?”). Una piccolo episodio per far capire il “contesto”: l’avvocato, il circolo massone, l’imputato, il testimone, eccetera eccetera eccetera. Un piccolo episodio che dà il senso di quanto sia grossa questa storia.

Ma torniamo all’impronta di Ugo Manca. Perché viene trovata nella casa di Attilio? Ugo dice di essere stato ospite in quell’appartamento oltre un mese prima, dato che all’ospedale “Belcolle” era stato operato di varicocele dallo stesso cugino. Da quel momento sostiene di non essere più entrato in quell’abitazione.

Eppure, secondo il parere di autorevoli esperti, le impronte digitali presenti sulle mattonelle di un bagno, si distruggono dopo qualche ora a causa del vapore acqueo.

Ugo è stato nell’abitazione del cugino solo in occasione dell’intervento, oppure c’è tornato pochissimo tempo prima del delitto? Non è stato accertato.

Perché dopo la morte di Attilio si muove come uno che deve entrare per forza in quell’appartamento (nel frattempo posto sotto sequestro)?

Perché parte immediatamente per Viterbo e va direttamente in Procura per chiedere il dissequestro della casa? Al Pm Renzo Petroselli – titolare dell’indagine – spiega che deve prendere gli indumenti per vestire la salma, ma Gianluca, fratello di Attilio, sostiene di avergli proibito con fermezza di prendere iniziative del genere. E allora perché insiste?

Un’azione analoga viene condotta parallelamente dalla madre di Ugo, che da Barcellona telefona a un alto magistrato romano affinché faccia pressione sui colleghi di Viterbo per il dissequestro di quell’abitazione. Secondo quanto sostengono i genitori e il fratello di Attilio, nessuno l’ha autorizzata. L’alto magistrato romano è un amico di famiglia, o è stato consigliato da qualcuno?

 

Pochi giorni prima della morte dell’urologo, a Viterbo si reca un altro mafioso barcellonese, Angelo Porcino, altra figura centrale di questa storia.

Perché? A quanto pare c’è da fare un’operazione alla prostata. Toh… lo stesso intervento al quale appena tre mesi prima è stato sottoposto Bernardo Provenzano. Chi deve eseguirlo? Ovviamente Attilio Manca.

E già sono due – tre eventualmente con Provenzano – i mafiosi che macinano migliaia di chilometri per farsi operare dall’urologo barcellonese. Anche questa una coincidenza.

Quella presenza nella città laziale è preceduta da una telefonata con la quale Ugo informa Attilio della venuta di Porcino. Non è stato mai accertato se l’urologo abbia mai operato Porcino, se si sia visto con lui e perché.

Eppure, a fronte delle copiose telefonate che in quei giorni intercorrono tra Ugo Manca e Porcino, gli inquirenti laziali affermano che quest’ultimo – titolare di una sala giochi nella quale, secondo la magistratura messinese, vengono gestite le scommesse clandestine per conto della mafia – non possiede un telefono, né fisso né mobile. Ma allora Porcino da quale utenza telefona? Mistero.

Negli stessi giorni Ugo Manca – in quel periodo pervaso dai “furori astratti” dei viaggi – dice di essere ufficialmente a Bologna, eppure il suo telefonino risulta in Sicilia, a Bagheria, zona di Provenzano. Sicuramente una coincidenza anche questa.

Altra coincidenza. Sul tavolo della camera da letto di Attilio vengono trovati degli strumenti per operare. Gli amici e i familiari dell’urologo – che pochi giorni prima sono stati con lui – giurano di non aver mai visto oggetti del genere in quell’appartamento. Perché sono lì? A cosa devono servire?

 

Due giorni prima della morte (10 febbraio 2004) Attilio fa un misterioso viaggio a Roma, quasi certamente per incontrare qualcuno. Il personale medico e paramedico dell’ospedale “Belcolle” dice che è ansioso, spaventato, turbato. La madre conferma. Uno stato d’animo che – secondo le testimonianze – si acuisce notevolmente quando al telefono sente persone di Barcellona, soprattutto quelle attualmente sotto indagine.

Nel pomeriggio ha un appuntamento importante col suo Maestro, il prof. Gerardo Ronzoni, e non si presenta. Non è da lui, a maggior ragione con quello che considera il suo “secondo padre”.

La sera dovrebbe andare a una cena organizzata da una Casa farmaceutica e non va neanche lì. Perché? Che succede? Mistero.

Alle 23,00 telefonano i genitori, il cellulare squilla ma Attilio non risponde.

Alle 9 dell’indomani è lui a richiamare i genitori: dice alla madre di portare la moto, parcheggiata nella casa al mare di Terme Vigliatore, da un meccanico. “Deve essere pronta per l’estate”. “Attilio, ma siamo a febbraio”. “Mamma per favore”. La telefonata dura pochi secondi. Angela chiude e si rivolge al marito: “Attilio è diventato acido”. Dopo la morte del figlio, il padre porta la moto dal meccanico, che la trova perfettamente funzionante.

Oggi la signora Manca, di quella breve conversazione, dà una chiave di lettura diversa: “Attilio voleva dirmi qualcosa di importante, ma non poteva. Voleva mandare un messaggio preciso, ma si sentiva impotente, ecco perché era nervoso, sperava che lo capissi al volo. Il punto centrale di quella breve conversazione era Terme Vigliatore, guarda caso il nascondiglio segreto di Provenzano. Voleva dire: cercate lì. Secondo me, in quel momento, era in ostaggio, o comunque controllato da qualcuno”. Congetture, certo…

È l’ultima telefonata, secondo la famiglia, fra Attilio e i genitori. Secondo gli inquirenti, invece, quella telefonata non c’è mai stata, infatti non è inclusa neanche nei tabulati.

È l’11 febbraio, il giorno prima del ritrovamento del corpo. Per tutta la giornata Attilio Manca è irreperibile. Al telefonino non risponde a nessuno.

Cosa fa nel corso di quella giornata? Con chi è? Nessuno in questi otto anni lo spiega. La mattina successiva non si presenta in sala operatoria. Altro fatto inusitato per una persona puntualissima come lui.

Lo ritrovano poco dopo come se fosse uscito da una macelleria. La prima versione ufficiale parla di decesso per edema polmonare.

Quando i genitori si recano alla Polizia di Viterbo per presentare la denuncia, qualcuno dice: “Vostro figlio è stato ammazzato, ci sono tutte le caratteristiche del delitto”.

La versione cambia nel giro di poche ore, magari dopo l’autopsia: Attilio improvvisamente diventa un suicida, per droga. Ufficialmente dicono che si è fracassato il volto sbattendo contro il telecomando della tivù, ma dalle foto si vede benissimo che il telecomando è sotto il braccio. E comunque il telecomando è sopra una superficie morbida come il piumone.

L’autopsia dice che è morto la sera dell’11 febbraio intorno alle 23. Dal referto autoptico si evince un altro particolare sconvolgente: la vittima, dopo il decesso, ha consumato la cena.

Provenzano o no, congetture o no, cari magistrati di Viterbo, sarebbe il caso che su questo caso si comincino a dare risposte serie.

In Sicilia siamo fin troppo abituati a “morti” del genere, da Cosimo Cristina a Peppino Impastato, tanto per citarne alcune: ti fanno ritrovare il cadavere e poi scatta la messa in scena del suicidio e della denigrazione della vittima. È un film visto e rivisto. Ogni volta che succede un fatto del genere, con un cadavere del genere, la mafia ha sempre “i cani attaccati” e diventa sempre difficile risolvere anche i casi più elementari. Si comprende la metafora?

Questo in Sicilia. E nel resto d’Italia, che ormai è una Sicilia più grande?

Cari magistrati, vi scongiuriamo di non farci arrivare a delle conclusioni alle quali non vogliamo arrivare. Vogliamo risposte serie, non di più.

E le vogliamo oggi, non domani. Domani potrebbe essere troppo tardi, per la famiglia Manca, per l’Italia, per la vostra dignità.

Luciano Mirone