New York. Una caffetteria nel centro di Manhattan. Giorno. Sto facendo la fila per una cioccolata con quel solito, immancabile senso di frustrazione per quel maledetto inglese lasciato al quinto ginnasio (allora le lingue straniere si interrompevano al secondo anno del liceo classico) e mai più ripreso. Di quella lingua ricordo yes, and, love, with, What’s is your name, How old are you, wonderful, alcuni numeri, i giorni della settimana e poco altro.
La fila intanto si assottiglia ed io mi avvicino alla cassa per lo scontrino. Chiedere la cioccolata è un gioco da ragazzi, l’assonanza mi aiuta, ma improvvisamente mi è venuta una voglia irresistibile di fare aggiungere la panna, e siccome adesso viene il mio turno e non posso neanche consultare il traduttore perché qui hanno una fretta della madonna, in un millesimo di secondo devo dire “panna” in inglese. Sennò devo tranquillamente rinunciare. Non è un dramma.
Ma decido di buttarla in burla. Scavo per gioco nelle mille stratificazioni del dna che un siciliano si porta dentro dalla notte dei tempi, le dominazioni, la fame, il bisogno, l’arte di arrangiarsi, l’ironia, Totò e Peppino a Milano. E pesco dal mio vasto repertorio genetico un modo soggettivo di ironizzare sulla scarsa dimestichezza con le lingue. Succede quando sono particolarmente euforico: elido la vocale finale per “inglesizzare” la parola italiana. E sparo una frase ad alta voce che lascia esterrefatta la cassiera: one-chocolat-with-pan, con un’enfasi accompagnata dal movimento dell’indice quando pronuncio la parola “pan”.
La cassiera si confonde, la gente resta interdetta, improvvisamente una risata alle mie spalle echeggia nel locale. Mi giro e vedo una corpulenta donna di colore che ha capito il gioco e non riesce a trattenersi. È piegata in due. Ride per tanti interminabili secondi e non riesce a fermarsi, spiega l’episodio alle persone presenti, contagia tutti. Nel locale si ride ed io penso all’effetto prodotto dai grandi attori siciliani di inizio Novecento, a cominciare da Giovanni Grasso e Angelo Musco, che recitavano in siciliano e conquistavano i teatri di tutto il mondo grazie a un dono che soltanto chi conosce l’arte di arrangiarsi possiede: la mimica, l’espressività, il modo di gesticolare.
Ma forse non è un caso che questa situazione tragicomica l’abbia compresa un’americana di colore che sa cos’è lo “spiantamento”. Non direttamente , ma attraverso il racconto tramandato di generazione in generazione. Nella risata di oggi vedo i patimenti di ieri, i mille trucchi per sopravvivere, il pianto degli schiavi, le sofferenze dei nostri padri partiti da sperduti paesini italiani per inseguire il sogno americano, un unico filo che collega epoche diverse su cui possiamo anche permetterci di scherzare. Mentre sto per rinunciare alla “pan”, la donna dice dolcemente alla cassiera: one-chocolat-with-whipped-cream, una cioccolata con panna montata.
POMERIGGIO A ELLIS ISLAND. Un’ora dopo eccoci a Ellis Island, dove c’è il Museo dell’emigrazione, una tappa obbligata per un italiano: qui fra la fine dell’Ottocento e per diversi decenni del Novecento milioni di persone provenienti da tutto il mondo (Italia soprattutto) sbarcavano, venivano registrate, trascorrevano un periodo di convalescenza (quando erano affette da malattie) e venivano smistate in tante città degli Usa.
Dopo tante ore di museo la comitiva è stanca, vuole raggiungere in breve tempo l’albergo al centro di Manhattan, ma per farlo deve superare il grande cordone di sicurezza creato attorno alla Grande mela: non è ancora rigido, ma è predisposto da ore.
Stasera a Times square si celebrerà la festa per l’ultima notte dell’anno con le icone pop più gettonate: quest’anno la cantante più attesa è Taylor Swift. Dopo la mezzanotte (grazie ad un pulsante premuto dal sindaco Bill De Blasio) l’enorme sfera luminosa di oltre tre metri e mezzo di diametro, formata da 2 mila 700 triangoli di cristallo Waterford, si poserà sulla piazza, in un rito che a New York si consuma dal 1907. Si prevede un afflusso di un milione di persone per diverse ore di festa.
Un-taxi-è-quello-che-ci-vuole/Gli-autisti-hanno-i-pass-per-oltrepassare-il-cordone. Giusta intuizione. Ma io preferisco andare a piedi, troppa voglia di scoprire il “dettaglio” del Mondo nuovo. Forse anche l’esigenza inconscia di saggiare la mia capacità di arrangiarmi di fronte a situazioni estreme.
L’importante è che entro le 22 arrivo in albergo, perché alle 22,30 abbiamo il cenone in un ristorante situato in una zona distante dall’hotel.
In Italia sono lontani i tempi delle stragi mafiose, adesso vedi il vigilantes davanti alla banca o la retata delle Forze dell’ordine contro gli spacciatori. Dopo Capaci e via D’Amelio le mafie hanno deciso di tenere il “profilo basso” per concentrarsi unicamente sugli affari, sono vietati severamente gli eccidi e gli omicidi eccellenti. Le parole d’ordine sono: niente-riflettori-puntati-addosso. È sbiadito il ricordo delle nostre città presidiate dall’esercito, per questo abbiamo abbassato la guardia. In America no, l’11 settembre 2001 è stato un trauma, si vive con l’incubo dell’attentato terroristico. Da un mese e mezzo la psicosi si è aggravata perché al Bataclan di Parigi un’azione terroristica di matrice islamica ha causato un centinaio di morti e oltre quattrocento feriti. E ora si teme che l’atto possa ripetersi qui.
Adesso immaginate questo siciliano a New York in un pomeriggio in cui la gente passeggia in attesa della festa di capodanno, questo siciliano che pensa che siccome la gente passeggia, tutto è tranquillo.
Immaginate questo tizio proveniente dalla provincia più profonda che, senza conoscere l’inglese, senza conoscere la città, senza usare navigatori, non ha compreso pienamente l’effetto devastante che l’atto terroristico alle Torri gemelle ha provocato nelle teste degli americani e adesso, con un’incoscienza degna di miglior causa, crede di essere tranquillamente a passeggiare per le vie di Catania.
È ancora giorno quando dal porto mi incammino verso la parte alta. Attraverso le vie eleganti, il negozio che vende palle colorate, il mega albero di Natale stilizzato al centro della piazza, le luci fantasmagoriche proiettate nella facciata del negozio di lusso, la sede del New York Times.
Quando le luci della sera prendono il posto dei colori tenui del crepuscolo, scatta l’operazione: diecimila agenti in assetto di guerra vengono sguinzagliati nel centro di Manhattan. Il volto dolce della città diventa improvvisamente truce. Le autoblindo avanzano, gli elicotteri ti ronzano sulla testa, il cono luminoso che parte dall’alto ti inquadra e si allarga su questa folla di un milione di persone che, a guisa di formiche, si muovono verso Times Square.
Rafforzano i controlli, irrobustiscono le transenne, moltiplicano i metal detector, da un isolato all’altro si passa solo dopo aver superato le verifiche. La folla è talmente oceanica che il monitoraggio della polizia si rivela lentissimo, poi si blocca, tutto diventa off limits, non si passa più. Si ricomincerà a circolare solo dopo il concerto di capodanno. Sono le 20,30 e tutto tornerà alla normalità fra almeno otto ore. Come-faccio-a-stare-otto-ore-in-questo-delirio-da-pazzi?
Cerco di mettermi in contatto col resto del gruppo. Invano. Non si sente nulla. Per messaggio dico che sono bloccato, ma è difficile perfino prendere il cellulare.
Non è facile spiegare cosa vuol dire essere un minuscolo essere umano davanti a una bestia come la folla dove c’è chi spinge, chi avanza, chi indietreggia, chi ha l’affanno, ma tutti alla fine si dimostrano impotenti perché sono costretti a restare immobili. Gente che urla, che sviene, che viene trasportata in ambulanza, che biascica parole incomprensibili, che deve andare urgentemente in bagno, che la fa sul posto.
Otto ore. Peggio di star chiuso per due giorni in un ascensore in preda ad una crisi di claustrofobia. Non ho pass, non ho fiato, non ho parole (né inglesi, né italiane). Ho paura di finire schiacciato. Mi viene da piangere. Dai meandri dell’inconscio affiora l’unico piano possibile. È a un metro da me. Gronda sudore. Indossa la divisa ed ha dei tratti somatici inconfondibili, una via di mezzo tra Lino Banfi e Alvaro Vitali.
Italian-policeman? Non sente. Grido. Italian-policemen? Oh-yes-nonno-Galatina-Puglia/Nonna-Leonforte-Sicilia. Sorride e si galvanizza. Contatta i colleghi, mi fa salire nella macchina della polizia, mi inonda di parole come camurrìa, amuninni, cassariàrisi, mi racconta la storia della sua famiglia e mi accompagna in albergo.
Luciano Mirone
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