Due volte campione nel mondo di calcio, nel 1934 e nel 1938. E poi una sorprendente vita, mai raccontata, accanto al Duce. Sempre vicino a lui sino alle ultime drammatiche giornate che videro il crollo della Repubblica sociale italiana e la fuga precipitosa, il 25 aprile, dello stesso Mussolini da Milano verso il lago di Como.
Eraldo Monzeglio, terzino tanto duro quanto elegante con il Bologna e con la Roma, è nella hall of fame del pallone azzurro, accanto al commendator Vittorio Pozzo (il commissario tecnico più vincente di ogni tempo), accanto a Paolo Rossi, Gigi Riva, Valentino Mazzola e Giuseppe Meazza. Ma la sua avventura agonistica sui campi da gioco (fu anche un apprezzato allenatore sulle panchine di Napoli, Samp e Juve) sembra quasi passare in secondo piano rispetto a ciò che vide, e ai fatti di cui fu testimone, se non protagonista, durante gli anni del secondo conflitto mondiale.
A raccontare la sua biografia sorprendente, da spericolato 007 in bilico tra fascismo e Resistenza, è un libro edito con Solferino — «Il terzino e il Duce», già in distribuzione — e scritto da Alessandro Fulloni, giornalista al Corriere della Sera, dove si occupa di cronaca.
Il calciatore fu prima volontario nella campagna di Russia (ma con il ruolo di «testimonial» dell’Esercito) e poi a Salò, dove, a villa Feltrinelli, visse accanto a Mussolini, nella sua segreteria, addetto «agli incarichi speciali».
Monzeglio — un palmarès sconfinato, tra cui uno scudetto da giocatore con i rossoblù del Bologna, quello del 1928-1929, e uno da direttore tecnico della Roma, 1941-1942, il primo della storia giallorossa — fu una specie di agente segreto, capace di instaurare rapporti insospettabili con l’antifascismo, spendendo la sua vicinanza con Mussolini per salvare le vite di partigiani catturati dai fascisti e condannati a morte.
Le testimonianze sono tante, quasi sovente inedite. E vengono non solo da carte conservate negli Archivi di Stato (tra cui quello di Como) ma anche dalle memorie di certi celeberrimi giornalisti sportivi, tra cui Gianni Brera, Vladimiro Caminiti, Antonio Ghirelli e Gino Palumbo.
Monzeglio, personalità naïf e uomo coraggioso, entrò in amicizia con il Duce grazie ai figli, Vittorio e Bruno, conosciuti da bambini a Riccione. Insegnò a giocare a tennis al dittatore entrando sempre più in confidenza con lui, set dopo set.
Come una specie di Forrest Gump del fascismo, visse in prima linea, da osservatore previlegiato, ogni fatto che sconvolse l’Italia tra il 10 giugno 1940, giorno dell’entrata in guerra, e la resa dei nazifascisti.
Sul fronte russo conobbe Gianni Agnelli, l’Avvocato, anche lui volontario in grigioverde, che vent’anni dopo lo chiamò ad allenare la Juve, quella del rissoso spogliatoio diviso tra Sivori e Boniperti.
Partecipò a un fallito tentativo di liberare Galeazzo Ciano, in carcere a Verona dopo l’arresto seguito al voto del 25 luglio che fece cadere il regime. Fu odiato da Clara Petacci che forse aveva intuito i suoi contatti con l’antifascismo, accompagnò alla frontiera con la Svizzera alcuni ebrei braccati dalle Brigate nere e dalle Ss, salvò dal plotone d’esecuzione il partigiano Giuseppe Peruchetti, ex portiere della Juve, dell’Inter e della Nazionale. Ma aiutò Vittorio Mussolini — il figlio del Duce ricercato dalla Resistenza — a nascondersi e a fuggire dall’Italia.
A un tratto, la biografia di Monzeglio vira verso la spy story: da fascista ricercato dai partigiani, addirittura un «most wanted», arriva ad allenare il Como, tra il 1945 e il 1946, grazie all’intercessione del Comitato di Liberazione Nazionale.
Forse questo è lo snodo decisivo della vita di Monzeglio: c’è stata una trattativa per arrivare a quella panchina? Magari uno scambio: documenti segreti della Repubblica sociale italiana, la localizzazione dei conti correnti in Svizzera nei quali la famiglia Mussolini aveva nascosto soldi?
Nel libro si adombra quest’ipotesi grazie anche a documenti inediti trovati all’Archivio di Stato di Como. Nel 1947, a chiamarlo sulla panchina della Pro Sesto, la squadra di Sesto San Giovanni, la «Stalingrado d’Italia», furono addirittura Abramo Oldrini, celebre sindaco-partigiano della città, e Benvenuto Cossutta, dirigente calcistico e padre di Armando, destinato a diventare uno dei massimi dirigenti del Pci, vicinissimo al Pcus.
Poi l’approdo al Napoli di Achille Lauro, sette anni indimenticabili — record sulla panchina ancora imbattuto — ma inseguito ancora dai fantasmi della guerra civile.
Sulla sfondo di questa storia, i carteggi tra Mussolini e Churchill, la sorte dell’oro di Dongo, i misteri che ruotano attorno alla morte del Duce.
Monzeglio morì a Torino il 3 novembre 1981. Del suo vero ruolo accanto al dittatore tra il 1943 e il 1945 non volle mai raccontare nulla. A certi giornalisti che insistettero spiegò: «Racconterei fatti che riguardano troppa gente ancora viva. Darei troppi dispiaceri, ci son cose che poi è meglio che non si dicano e che è meglio dimenticare, seppellendole nella tomba».
Di seguito un brano del libro:
“Como, marzo 1947. Eraldo Monzeglio (1906-1981), due volte campione del mondo di calcio nel 1934 e 1938, allena da circa un anno la squadra lariana che veleggia in Serie B. Non è chiaro come l’ex calciatore — un terzino — sia approdato sulle sponde del lago dove il 28 aprile 1945 il Ventennio, e la sua appendice di Salò, si chiude con la fucilazione di Benito Mussolini a Giulino di Mezzegra.
Monzeglio è più di un fascista, è l’uomo che ha insegnato a giocare a tennis al Duce e grazie al tennis è diventato sempre più vicino alla famiglia del dittatore, seguendolo a Salò.
Fatto sta che una notte di quel marzo, una piccola delegazione della Pro Sesto calcio, la squadra di Sesto San Giovanni, la rossa «Stalingrado d’Italia», raggiunge l’allenatore, rintanato in una villa. Ne fanno parte il sindaco Abramo Oldrini, ex partigiano comunista, Benvenuto Cossutta, il padre di Armando, futuro esponente del Pci, e un giornalista ventenne, Nino Oppio, molti anni dopo firma di spicco alla Gazzetta dello Sport e al Corriere della Sera, anche lui vicino alla Resistenza.
Sulle prime c’è un colossale equivoco: Monzeglio pensa che quei tre lo abbiano raggiunto per prenderlo e ammazzarlo — in tutto il Nord Italia erano ancora in corso le esecuzioni sommarie dei fascisti — e quando Cossutta gli chiede di seguirlo, l’ex campione risponde terrorizzato: «Siete matti, se vengo a Sesto mi fucilano». Poi però tutto si chiarisce. Il sindaco rassicura l’ex terzino: «So che lei è un uomo perbene, noi vogliamo solo un bravo allenatore che eviti la retrocessione della Pro Sesto». E viene firmato il contratto”.
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