Il democratico Giuseppe Ferrari non aveva dubbi: la nuova Italia sarebbe dovuta nascere federale, democratica e repubblicana. Anche per Carlo Cattaneo il federalismo rappresentava la formula vincente per governare le problematiche generate dalla secolare divisione politica. Mazzini, invece, la sognava “una, libera e repubblicana”, come anche Garibaldi, che poi scelse la monarchia per favorire il processo di unificazione nazionale.

E l’Italia, infine, è nata il 17 marzo 1861 a Torino, ricamata dal Cavour attorno al suo re, Vittorio Emanuele II, e al Piemonte, di cui vennero esportate dalle Alpi al canale di Sicilia leggi, moneta, organizzazione dello Stato e dell’esercito, pesi e misure, etc, con la successiva legge Lanza/Ricasoli.

Il processo di “piemontesizzazione” fu violento e dispendioso. Le risorse necessarie per risanare il deficitario bilancio e “fare” l’Italia si pescarono nel Regno delle Due Sicilie e nel suo tesoro che prese velocemente la via del Nord. Il trauma per il Paese fu violento. Costrette al drastico cambiamento, tutte le regioni ne soffrirono, tranne quelle del nord-ovest.

Anche l’economia fu immolata agli interessi lombardo-liguri-piemontesi, che ne risultarono favoriti a discapito di quelli delle sconfitte regioni meridionali. Paradossalmente, queste, rimasero emarginate nella individuazione delle scelte strategiche del nuovo Stato unitario, pur essendo parte attiva nel governo del Paese.

E oggi sono in tanti a credere che l’aver governato la diversità dei bisogni con gli stessi strumenti normativi sia stato il più grande errore compiuto dal nuovo Regno d’Italia.

Infatti, l’accentramento non ha promosso la crescita armonica di tutte le regioni, poiché ne ha favorito alcune, ritardando lo sviluppo di altre. Dopo 140 anni di Stato unitario, il Parlamento ha cercato di correre ai ripari, riformando il TITOLO V della Costituzione con la Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha modificato i rapporti tra Stato e enti locali, dando attuazione ai principi di autonomia e decentramento amministrativo.

Tuttavia, nella cosiddetta Padania, si sono affermati nuovi egoismi e la convinzione di poter star meglio senza il peso delle regioni più povere. Una forza politica ha canalizzato questa istanza in pericolose formule secessionistiche e autonomistiche, nelle quali è lievitata politicamente l’autonomia differenziata, voluta fortemente dalla Lega e introdotta recentemente dal Parlamento con la Legge 26 giugno 2024, n. 86.

Essa trasferisce alle regioni a statuto ordinario che ne fanno richiesta il potere legislativo sulle materie di competenza concorrente e su tre di competenza esclusiva dello Stato, previste dall’art. 117 della Costituzione. Si tratta, per fare qualche esempio, d’istruzione, sanità, produzione di energia, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione europea, tutela e sicurezza del lavoro, ricerca scientifica e tecnologica, governo del territorio, trasporti e comunicazioni: tutti ambiti particolarmente delicati e strategici.

Inoltre, insieme alle competenze, le regioni possono trattenere anche il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.

Ciò danneggia il Sud e divide di fatto l’Italia, introducendo differenti livelli di autonomia tra le regioni sia per motivi economici (le regioni del Nord più ricche avranno a disposizione maggiori risorse), sia per motivi socio-ambientali (le mafie governano territorio ed economia specialmente nel Mezzogiorno), sia per reale capacità di autogoverno, come dimostrano soprattutto le fallimentari gestioni della sanità, del territorio e dell’edilizia scolastica nelle regioni del Sud.

Certamente l’autonomia potrebbe rappresentare un’opportunità per le amministrazioni regionali nella gestione del loro territorio, perché ne conoscono meglio del governo centrale le problematiche e i bisogni dei cittadini, consentendo di erogare migliori servizi e garantendo interventi di prevenzione più tempestivi. Inoltre avrebbero a disposizione un maggior gettito fiscale in conseguenza delle nuove competenze delegate dallo Stato.

Chi è contro, invece, considera l’autonomia pericolosa, perché consentirebbe alle regioni di trattenere il gettito fiscale, aggravando il divario tra Nord e Sud. Inoltre, lo Stato verrebbe a perdere il controllo su voci importanti di gestione e di spesa. Per questo motivo la legge è stata anche definita “la secessione dei ricchi”, perché assicura maggiori risorse alle regioni del Nord, accentuando le disuguaglianze col resto del Paese, che potrebbe rimanere non adeguatamente tutelato dal finanziamento dei LEP (livelli essenziali di prestazione).

Essi, comunque, devono essere definiti prima della concessione dell’autonomia, anche se altre 9 competenze delegate, tra cui protezione civile, coordinamento del sistema tributario, organizzazione della giustizia di pace, non sono subordinate ai LEP.

L’autonomia, inoltre, mette a rischio il sistema unitario di istruzione con programmi diversificati a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e stipendi differenziati, quando già, di fatto, esiste una sperequazione ingiusta delle risorse educative pubbliche per il diverso supporto fornito dagli Enti locali che integrano i trasferimenti statali con risorse regionali e comunali, come ben sa chi opera nel mondo della scuola e ha il privilegio di conoscere le diverse macro aree del Paese.

Identiche disuguaglianze, infine, si avranno nel sistema sanitario con servizi di tutela della salute differenti per disponibilità di risorse e di prestazioni; come anche nei trasporti e nelle comunicazioni, perché già esistono tre Italia: quella settentrionale ad alta velocità con autostrade a quattro corsie e treni superveloci; quella centro-meridionale con autostrade e treni europei; quella insulare con una rete ferroviaria vetusta, in gran parte su un solo binario, e una rete autostradale e stradale pericolosa, obsoleta, per carreggiate ridotte e gallerie poco illuminate, tratte incompiute e declassate.

L’elenco dei grandi timori si potrebbe ancora allungare, perché in gioco c’è il passaggio di competenze strategiche dalla gestione statale a quella regionale, col supporto di risorse differenti. Intanto un confronto serrato aspetta le parti nella prossima conferenza Stato-regioni. E la riflessione si è aperta in tutto il Paese.

Nino Pulvirenti