Perché i catanesi sono così visceralmente legati alla figura di sant’Agata? Per tradizione, per folklore o per qualcosa di molto più profondo? Bisogna conoscere a fondo questa storia e andare a Catania il 3, il 4 e il 5 febbraio per capire le emozioni che ogni cittadino – dal disoccupato al professore universitario, dai diseredati dei quartieri popolari al ricco imprenditore di corso Italia – prova nei giorni della festa.
Bisogna vedere, senza farsi condizionare dal pregiudizio, il raccoglimento di tante persone che si recano in chiesa anche quando non c’è messa, solo per pregare o semplicemente per stare in silenzio. Bisogna osservare le loro facce, i loro occhi, la loro compostezza per comprendere che dietro ad ognuno c’è una storia, un pensiero, uno stato d’animo.
Se non guardi a trecentosessanta gradi, se ti fermi solo all’esteriorità del rito e non lo studi nei suoi aspetti più umani (oltre che storici e sociali), senza condurlo alla realtà, non lo capirai mai. Il cristianesimo – lo diciamo col rispetto dovuto – non è solo quello spirituale che viene spiegato in chiesa: crediamo che ci sia dell’altro che secondo noi completa la narrazione.
Spesso si liquida tutto con superficialità, si pensa che i catanesi siano legati solo alle “bombe”, all’uscita, alla processione, “‘a cchianata di San Giuliano” (la salita di San Giuliano), “’a sira ‘o ttri” (la sera del 3 febbraio) e tanti altri momenti simbolici. Questo senz’altro, ma secondo noi – ripetiamo – c’è qualcosa nell’intimo di ognuno, malgrado l’anarchia di questo popolo, malgrado certi primati che si registrano a livello europeo, dalla dispersione scolastica alla criminalità minorile, dai “senza casa” alle “fuitine”.
Per capire perché i catanesi sono così legati alla figura di Sant’Agata, perché la invocano, perché si lasciano andare a quei cori così gioiosi e al tempo stesso così commossi, in un crescendo da togliere il fiato (“Citadini, citadini, evviva Sant’Aita”, “E ‘ppi sta santa miraculusa semu tutti devoti tutti? Sì, sì, sì… Citadini…”), bisogna partire dal concetto di bene e di male, capire perché l’umanità – dopo duemila anni – è così legata alla figura di Gesù Cristo e raccontare un episodio verificatosi subito dopo il processo intentato dal governatore Quinziano contro questa “bellissima” fanciulla cristiana di buona famiglia sulla quale – secondo le fonti storiche – il rappresentante di Roma a Catania aveva messo gli occhi.
Anno 251. A Roma l’imperatore è Decio. Ai cristiani vengono inflitte le pene più atroci. A parere di alcuni storici, Decio si mostra più moderato di chi, fra i suoi predecessori, faceva sbranare, crocifiggere, lapidare, trucidare i cristiani, eppure Agata viene uccisa mentre il capo supremo dell’impero è lui.
Evidentemente a manovrare, a strumentalizzare certe leggi e a volere la morte di questa ragazza catanese fra i diciotto e i venticinque anni è Quinziano, non solo perché è cristiana (peccato ritenuto imperdonabile dai romani), ma perché è avvenente, affascinante, dolce ed alche sensuale: ci sono fonti e dipinti che la descrivono così. Lui la vuole ma lei lo respinge. Con quale motivazione?
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Il martirio di Sant’Agata, di Jacopo Ligozzi, custodito nella cattedrale di Piazza Armerina (Enna). Sopra: un momento dell’imponente processione che si svolge a Catania
Le fonti ecclesiastiche danno questa risposta: “Perché Agata si dichiarò sposa in Cristo”. Vero. Ma secondo noi questa frase va interpretata così: “Perché Agata sposò (il pensiero di) Cristo”. C’è differenza. La prima esprime un concetto astratto, la seconda reale.
A nostro giudizio, dunque, alla base di tutto c’è un “pensiero”. Di amore, di fratellanza, di giustizia sociale, di pace, ma soprattutto politico, rivoluzionario, eversivo, che per un impero che concepiva la guerra e la violenza come mezzi per conquistare il mondo era fortemente destabilizzante.
È una vicenda, quella di Agata, che non va vista con gli occhi del mondo cristiano di oggi (che dopo due millenni ha introiettato i valori che predicava Agata), ma col senno di ieri, quando il governatore di un territorio poteva permettersi di avere tutte le donne e le ricchezze che voleva soltanto con lo schiocco di un dito.
Catania all’epoca pare che fosse una città molto libertina, la prostituzione era molto in voga, se eri potente ottenevi tutto, anche negli ambienti più altolocati. Non è un caso che dopo i primi rifiuti di Agata, Quinziano la fa prelevare dai suoi soldati e per un mese la affida ad Afrodisia, una donna dai facili costumi che col governatore pare che non intrattenesse rapporti di sola amicizia.
Il compito di Afrodisia è uno solo: convincere Agata che Quinziano l’avrebbe resa una donna privilegiata e felice. Ed evocare ricchezze e lussi di ogni tipo. La ragazza rifiuta: “La mia felicità è in Cristo”. La meretrice cambia strategia e va oltre. La sua casa è frequentata da uomini e donne in tutte le ore del giorno e della notte. La vista dei piaceri della carne, pensa, servirà a farle cambiare idea: “La mia felicità è in Cristo”. Agata è irremovibile. La sua fede è incrollabile, i suoi valori granitici. Non ci sono ricchezze o “cattivi pensieri” che possano farle cambiare idea.
Afrodisia spiega tutto a Quinziano, che, in preda all’ira, decide la vendetta. Sono momenti concitati e drammatici. Agata viene messa sotto processo “solenne” (diverso da quello “ordinario” che si tiene per i casi più comuni), viene accusata, ma lei alza il tiro. Non si limita a dire di essere una seguace di Cristo, con autorevolezza e con dolcezza ironizza sulla cultura materialista di cui Quinziano è portatore, addirittura prende in giro i suoi dei “di gesso e di cartone”. Ce n’è abbastanza per essere accusata di Lesa Maestà e per decretare il martirio: l’emblematica asportazione delle mammelle.
Il processo, però, prende una piega imprevista. Il popolo e la stessa claque di Quinziano rumoreggiano, si ribellano di fronte all’ingiustizia perpetrata nei confronti di una ragazza innocente, che fa tenerezza, che simboleggia il bene di certi valori contrapposti agli orrori delle guerre. Scoppiano tumulti. Il governatore è costretto ad uscire da una porta secondaria. Sono passati 1774 anni, la città non dimentica.
Luciano Mirone
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